Vittorio Leo, l’agente immobiliare di 48 anni accusato di aver bruciato vivo il padre, ha confessato con questo racconto: «Stavamo litigando come spesso accadeva. Mi ha cacciato via, mi ha detto di andarmene da casa, come era solito dirmi da tempo. Eravamo in cucina dove lui stava preparando il pranzo e aveva un fornello accesso. Avevo in mano una bottiglietta di alcol con la quale mi stavo disinfettando una ferita. Quando mi ha detto così gli ho spruzzato l’alcol addosso. Poi ho visto il fuoco». Questo è quanto accaduto ieri mattina nell’abitazione di famiglia a Collepasso, in Salento.
Palermo, ragazza picchiata e abusata dai genitori: “Meglio morta che lesbica”. Il padre la violenta ripetutamente per insegnarle “il piacere verso il maschio” anziché rispettare la sua presunta inclinazione omosessuale. “Ho tentato il suicidio tre volte, ma dopo lʼennesima violenza sono riuscita a scappare e a denunciare”.
Roma, donna muore incastrata sotto la metro alla stazione Lepanto. Romani inferociti urlano ai soccorritori di sbrigarsi a togliere il cadavere. Qualcuno vuole la restituzione del biglietto, qualcuno impreca contro tutto e tutti.
Tre piccole storie di cronaca di questi ultimi giorni che evidenziano la gravissima situazione sociale, umana, relazionale di violenza dilagante e disumanità che fa da cornice alle nostre vite.
La domanda sull’origine e il significato del male se la sono posta tutti i grandi autori: Freud, che al culmine della sua indagine ha coniato il concetto di “pulsione di morte”, Jung, che ha indagato l’Ombra e l’ambivalenza di Dio, e poi, ciascuno a modo suo, Melanie Klein, Erich Fromm, Otto Kernberg, Alice Miller, ecc.
Illuminata da questi giganti, la domanda sull’origine e il senso del male me la sono posta anch’io. La natura umana per sua definizione è socievole e la sua forza biologica primaria è l’empatia, ciò che domina le relazioni dovrebbe essere il sentimento del sentire comune.
Nondimeno, traumi infantili e adolescenziali, abusi e violenze e ancor più l’imprinting culturale di intere società votate alla sopraffazione possono strutturare personalità nelle quali la crudeltà diventa il tratto dominante, e sviluppare personalità complementari nelle quali l’adorazione o quantomeno la sopportazione della crudeltà si impongono contro lo stesso interesse personale. Tali figure drammatiche complementari del narcisista sadico e della vittima latente non di rado sono unite da un comune destino.
Oggi questo meccanismo della sopraffazione, della rabbia e dell’assoluta incapacità di dialogare con se stessi e con la propria visione oscurata del mondo è diventato un leitmotiv dell’esperienza esistenziale. Tutt’al più che la conoscenza della vittima nelle storie ordinarie di criminologia pone un quesito drammatico per le relazioni affettive, dove uomini e donne sono totalmente incapaci di riconoscere il disagio psichico che si interpone tra loro e mettono a rischio quel quotidiano che farà da detonatore al rapporto che lega la vittima al suo carnefice.
Ecco, appunto, che storie di ordinaria follia e violenza sono sulla cronaca di tutti i giorni, dove madri, padri, figli, mariti, amanti e amici si ammazzano l’un altro o distruggono le vite altrui con acido o violenza di genere, accecati dall’odio e dalla vendetta. Senza provare alcun rimorso, sopraffatti da un vuoto emotivo che prelude alla condanna più grave, l’infelicità, la solitudine e l’abbandono della società.
Barbara Ruggiero
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