Nessuno si era accordo del Referendum sull’ autonomia indetto dalle regioni Lombardia e Veneto, fintanto che, alla vigilia del voto, qualche big di partito non ha capito che quell’appuntamento poteva dire molto, in termini di risultati ed aspettative, rispetto alle prossime elezioni politiche nazionali, quando, Rosatellum permettendo, gli italiani dovranno decidere chi, e a quali condizioni, dovrà governare il Paese.
I risultati del referendum di per sè scontavano lo scarso peso istituzionale che la consultazione avrebbe comportato. Le polemiche della vigilia sulle procedure (ed effettivamente bastava un passaggio con precise richieste parlamentari per aprire un tavolo governo-regioni) non avevano certo rinvigorito l’attenzione su scala nazionale di una votazione che molti speravano annacquata e snervata dalla scarsa affluenza alle urne.
Ma cosi non è stato. E rispondendo alla freddezza dei partiti che volevano una consultazione piatta ed esangue, la gente di quella porzione d’Italia ricca stanca di essere tartassata, ha deciso diversamente: è andata a votare per dire che di fronte alla paralisi della politica qualcosa doveva essere fatta. Così hanno deciso quei sei milioni di italiani che, fregandosene delle indicazioni di Pd (decisamente contrario alla consultazione) dei grillini (abbastanza poco decisi per il si) di un Berlusconi (schierato sul fronte del si secondo un preciso schema di opportunità politica) ed una destra divisa tra il segretario della Lega Salvini che non ha mai amato questo referendum e i Fratelli d’Italia decisamente contrari in nome di una unità d’Italia nella quale oggi sembrano credere solo loro, hanno deciso di rompere i vetri della cattedrale lanciando sassi.
La seconda considerazione riguarda il voto stesso e chi lo ha promosso. Sicuramente è stata la vittoria dei governatori leghisti e di chi non è disposto a fare concessioni all’Italia più debole. Indubbia la vittoria su chi ha scommesso sul federalismo. Negare che questo referendum e le conseguenze che le future trattative governo regioni comporteranno maggiore autonomia e minore solidarietà sociale, sarebbe pura follia. Adesso l’Italia si scopre più debole in termini di coesione politica e sociale. Di sicuro a beneficiare di questa situazione sarà il premier Gentiloni che, a giudicare almeno dall’esultanza di Maroni, aprendo il famoso tavolo di confronto sui 23 temi contemplati dall’art. 116 della Costituzione avrà molti elementi per diventare, agli occhi del centrosinistra, l’uomo in grado di riannodare un minimo di dialogo tra le parti nel momento in cui a sinistra come a destra e tra i grillini (molto meno in verità) la confusione regna sovrana.
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