Non si spegne il fuoco della protesta nelle terre controllate con il pugno di ferro da Pechino. Marzo in Tibet è il mese della protesta da 66 anni: era il 1959 quando a Lhasa scoppiò la sollevazione di popolo, soffocata nel sangue dall’esercito cinese, che convinse il Dalai Lama a rifugiarsi in India e chiedere aiuto alla comunità internazionale.
Quest’anno, per evitare che analoghe proteste avvengano davanti agli occhi attenti del mondo, il governo cinese ha ordinato la chiusura delle frontiere interne della Regione autonoma del Tibet dal 25 febbraio al 31 marzo. Tutti gli stranieri dovranno uscire dalla Regione autonoma entro quella data, e sono state imposte limitazioni anche alla libertà di movimento degli abitanti.
Non è la prima volta che a Pechino si prende una decisione simile: era successo già nel 2012, quando in segno di protesta, secondo i giornali occidentali, si suicidarono dandosi fuoco almeno 37 persone. L’ultima rivolta di grandi proporzioni è avvenuta nel 2008, quando la Repubblica popolare cinese introdusse la legge marziale; ma la tensione rimane altissima ancora oggi.
L’altopiano tibetano è stato di fatto indipendente solo tra il 1911 – alla caduta della dinastia Qing – e la rivoluzione maoista. Prima di allora, sulla carta, era un protettorato cinese, ma la dinastia imperiale non interferiva più di tanto negli affari locali.
Tutto cambiò con la rivoluzione di Mao Tse-Tung: la riunificazione nazionale doveva avere la precedenza su tutto, a qualsiasi costo. Così, nel 1950 l’Esercito popolare di liberazione rioccupò l’altopiano e impose al Dalai Lama un accordo che cedeva la sovranità alla giovane Repubblica popolare cinese. Il tutto a spese dei tibetani: prima vivevano rigidamente divisi in caste, nella miseria e nell’arretratezza, sotto un regime teocratico ostile a ogni progresso; ma dalle rivolte del 1959, a dispetto di tutti gli accordi, Pechino prova a coprire tutte le loro particolarità culturali, religiose e linguistiche sotto una spessa mano di vernice rossa.
Sulla carta i tibetani sono una delle 56 etnie riconosciute dalla Repubblica popolare cinese, e hanno uno statuto speciale fissato dalla legge. Ma assieme agli aeroporti e alla ferrovia sono arrivate anche le demolizioni di interi quartieri, ricostruiti tutti uguali, e tanti coloni da cambiare radicalmente il volto della società tibetana. Il governo cinese è accusato di aver messo in atto una colonizzazione di popolamento, dipingendo il Tibet come una terra promessa per migliaia di emigranti.
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