A due mesi dalle elezioni politiche, che Recep Tayyip Erdogan vorrebbe trasformare in un referendum sulla sua presidenza, la Turchia è scossa da un’ondata di violenza senza precedenti.
All’indomani del sequestro finito in tragedia del procuratore Mehmet Selim Kiraz, martedì ad Ankara, due episodi hanno scosso Istanbul, cuore economico e culturale del paese.
Nel quartiere centrale di Fatih, nella parte europea della metropoli, un uomo e una donna armati di fucili hanno provato a dare l’assalto a un posto di polizia.
Secondo quanto ha spiegato alla stampa il governatore di Istanbul, Vasif Sahin, i due avrebbero aperto il fuoco contro gli agenti di guardia al commissariato di Vatan Sokak.
Nel conflitto a fuoco la donna è morta, mentre l’uomo è rimasto ferito, così come due poliziotti, ed è stato arrestato.
L’attentatrice aveva addosso una bomba, perciò si deve ritenere che volesse compiere un attacco suicida.
L’atto non è stato rivendicato, ma la stampa turca sospetta di DHKP/C, il gruppo di estrema sinistra responsabile del sequestro di Kiraz.
Nel frattempo un altro uomo si è introdotto in una sede dell’AKP (“Giustizia e Sviluppo”), il partito del presidente Erdogan, nel quartiere di Kartal.
Sotto la minaccia delle armi, l’uomo ha costretto tutti a uscire e quando è rimasto solo ha inscenato un’azione dimostrativa: è salito all’ultimo piano dell’edificio e ha sventolato da una finestra una bandiera turca sulla quale alla mezzaluna e alla stella era stata aggiunta una spada.
L’uomo si è poi arreso alle forze speciali, che avevano fatto irruzione nel palazzo, senza opporre resistenza.
Il presidente Erdogan ha voluto spiegare l’episodio come un tentativo di turbare le trattative di pace fra il governo di Ankara e i separatisti curdi.
Le forze dell’ordine intanto hanno arrestato 32 presunti militanti e simpatizzanti di DHKP/C nelle città di Antalya, Eskisehir e Izmir (Smirne).
La polizia è intervenuta anche nella facoltà di Giurisprudenza dell’università di Istanbul, fermando 26 studenti sospettati di aver affisso a un muro un ritratto di uno dei due sequestratori di Kiraz.
Questi episodi testimoniano un clima politico di tensione diffusa in vista delle elezioni previste per il prossimo 7 giugno.
A questo clima hanno sicuramente contribuito anche il grande blackout elettrico di mercoledì mattina e i tre allarmi bomba in quattro giorni, registrati su voli della compagnia aerea nazionale, tutti rientrati.
La tensione, tuttavia, potrebbe giocare a favore del presidente.
Erdogan non ha fatto mistero di voler riformare la Costituzione della Turchia per farne una repubblica presidenziale, concentrando ancor più potere nelle proprie mani.
Per farlo, però, ha bisogno di due terzi dei voti del Meclis, il parlamento di Ankara, e non vorrebbe dividerli con nessun altro partito.
Ma il polso del paese reale sembra sfuggirgli via via sempre di più negli ultimi anni. Alcuni suoi atteggiamenti arroganti gli sono costati il favore di una parte dell’elettorato, e da recenti sondaggi è emerso un calo di consensi che, se confermato dalle urne, potrebbe addirittura costringerlo a formare una coalizione per poter governare, fatto mai accaduto da quando è al potere.
Non gli va meglio all’interno del suo stesso partito, dove ha ingaggiato una battaglia colpo su colpo con Ahmet Davutoglu, presidente AKP e premier in carica, sulle nomine elettorali.
Anche in politica estera si è guadagnato pesanti critiche su questioni di primaria importanza, dal rispetto della libertà di espressione al riconoscimento del genocidio armeno, per non parlare della controversa agenda geopolitica che gli ha inimicato diversi vicini.
Ora, però, presentarsi alle elezioni come l’uomo incaricato di salvare la nazione dal disordine imperante potrebbe portare nel suo campo gli elettori indecisi, e pazienza se almeno una parte di quel disordine è responsabilità sua e del suo partito.
Che questa sia la strategia dell’AKP è testimoniato dalle dichiarazioni, per una volta unanimi, di Erdogan e Davutoglu, che hanno accusato “forze oscure” o un “asse del male” di cospirare contro il bene della Turchia.
Filippo M. Ragusa
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