Non si può dire che la prémiere della Turandot al Teatro dell’Opera di Caracalla di giovedì 15 luglio sia stata un successo né che ci fosse il pienone per una serata che avrebbe potuto meritare ben altro numero di partecipanti. L’opera del maestro Puccini, affidata alla regia dell’italo tunisino Denis Krief a cui si deve anche la scenografia, i costumi e la scelta delle luci, non riesce a brillare né a scuotere dal torpore estivo e le prime tre voci, Iréne Theorin, Jorge de Leon e Maria Katzarava, debuttano senza impressionare e non ricevono scrosci di applausi. Come mai? Difficile dirlo soprattutto perché il progetto della messa in scena raccontato dal regista, ormai alla sua sesta Turandot, aveva creato una certa aspettativa. Eppure poco convincenti sono sembrati diversi aspetti. Prima di tutto la scelta scenografica monodimensionale. Forse troppo semplice: una muraglia in legno di bambù con pannelli semoventi a mostrare il coro e permettere l’uscita dei personaggi. Rendere un senso di estraneità, per volontà del regista, a qualsiasi localizzazione particolare rimanda allo spettatore l’intuizione di un’Asia iconografica, al limite del banale. In secondo luogo la resa dell’elemento temporale: non sembra esserci alcun senso della storia, non vi è un intrecciarsi dei ritmi, come fossimo di fronte ad un unico momento a cui il passato e il futuro sono come preclusi o se non altro appena accennati. Ci troviamo subito in medias res come l’opera Turandot vuole, certo, ma è il senso di una narrazione a mancare. Si succedono azioni, d’accordo l’hic et nunc dell’opera d’arte annunciata da Walter Benjamin ma più che una scelta stilistica sembra un risparmio, tutto sembra focalizzarsi nella figura di Calaf, Jeorge de Leon, e del suo oscillare tra la realtà rappresentata dalla schiava Liù che lo ama e la fantasia la cui immagine è proprio la bella e gelida Turandot. La cui forma però si perde nelle fattezze di una donna e non dell’austera vergine il cui orgoglio statuario dovrebbero invadere e intimorire tutta la scena. Le sole coordinate le abbiamo nelle divise dei militari di un verde il cui richiamo alle forze armate del popolo è però indistinto così come le divise rosse e blu del popolo/coro. Uniche eccezioni i costumi imperiali della Turandot e dell’imperatore suo padre, rispettivamente in turchese e oro. Per il resto un bianco funereo domina la scena, non a caso colore del lutto in Cina, ma senza nulla di saturnino, di oscuro. Il regista Denis Krief ha puntato tutto su un dramma piccolo-esistenziale, quello di Calaf, a scapito, pare, delle altre figure che compongono il panorama di una Pechino nascosta dietro la muraglia di bambù che domina tutti e tre gli atti. Non convince neppure l’ipotesi di un teatro che richiami l’avanguardia, né il minimalismo estremo che si muove sulla scena. La rappresentazione sembra viziata da un che di approssimativo che non permette al pubblico né un’immedesimazione con i personaggi né un sincero godimento delle arie che compongono l’opera. Gli altoparlanti gracchiano in almeno due occasioni e all’orchestra della fondazione lirica Roma, guidata dal maestro con Juraj Valcuha, manca quel tanto di carisma capace di irretire il pubblico e farlo esplodere nel climax. Rimane evanescente, inconclusa e non certo per la scelta, che per altro non siamo sicuri necessariamente premiante per il progetto di Krief, di proporre la versione erroneamente nota come incompiuta. Alla Scala di Milano la versione era per così dire estesa ma di certo non è stato questo a giustificare gli undici minuti di applausi. Tra le due messe in scena lo scarto è nella ricerca di una grandezza che a Cracalla sfortunatamente è mancato. È forse il rischio dell’arte concettuale così come della messa in scena altrettanto concettuale quello di dover essere spiegata, comparata, sezionata in micro mondi nei quali gli indici di nomi e di correnti la fanno da padrone sul significato. Diverso sarebbe stata un’opera i cui livelli d’interpretazione e di fruizione fossero davvero infiniti. La Turnadot di Krief è invece statica, ferma sul primo e unico piano creato dal regista, la stessa cornice delle terme non è che un orpello. Ben diversa sembra essere la Butterfly, anch’essa in scena a Caracalla, per la regia di Alex Ollé, della Fura dels baus. Una serata con poca magia quella di Caracalla, privata anche dell’eleganza: uniche a credere di bere Champagne all’ombra delle superbe rovine in attesa dell’attacco dell’opera tre turiste russe, peccato che fosse spumante, forse anche caldo.
Flavio Balzano
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