Sul problema migranti la Chiesa è ormai ben al di là della prima linea. Da sempre schierato a favore dell’accoglimento dei flussi migratori, drammaticamente alimentati dalla guerra che sconvolge il Medioriente, papa Francesco non si affida più all’Angelus per raccomandare la disperazione dei fratelli in balia di questo autentico dramma epocale, ma ha deciso di mobilitare le sue ‘divisioni’ appellandosi direttamente al sistema nervoso ecclesiale: parroci e parrocchie.
Da qui un richiamo netto, preciso e perentorio all’obbiedienza: “Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia diocesi di Roma”.
E le prime risposte non si sono fatte attendere. Proprio da Roma. Abbiamo cercato e parlato con Don Vittorio Bernardi, parroco di San Giovanni XXIII, da anni impegnato sul fronte dell’assistenza ai migranti.
Farsi prossimi dei più piccoli e abbandonati, questo l’invito del Papa nell’Angelus della scorsa domenica. In che modo i sacerdoti rispondono all’appello?
“Il Santo Padre dà delle direttive agli uomini della Chiesa in quanto responsabile del sistema nel mondo ma anche Vescovo di Roma. E’ li la guida dei sacerdoti romani, quindi è anche il mio superiore. Ma quelle del Santo Padre sono indicazioni di massima, generali, che vanno contestualizzate. Il Papa non dice come, quando o in che misura intervenire. Lascia a noi, piccoli pastori, e alle nostre comunità le modalità di organizzare interventi. Nella nostra parrocchia una importante forma di accoglienza è costituita dalla distribuzione dei viveri e dei vestiti e dal cercare di creare una rete tra chi cerca lavoro e chi lo offre. Per quanto riguarda l’accoglienza dei profughi nelle parrocchie io sono molto d’accordo, ma non tutte le parrocchie sono in grado di rispondere, bisogna vedere caso per caso e va valutata anche la comunità, perché anche questa va educata. Sarebbe tempo perso se il parroco facesse delle cose completamente per conto suo senza una comunità che lo segue. Il parroco è come un padre, ma poi tutta la comunità deve essere coinvolta. Nella nostra parrocchia abbiamo in progetto di creare una chiesa più grande che diventi un santuario, ossia un luogo di accoglienza tanto per i pellegrini quanto per le persone in difficoltà. L’obiettivo non è solo quello di costruire una grande chiesa ma soprattutto una grande comunità aperta alla gente e aperta al mondo. Questo è il nostro sogno”.
Nel corso del suo precedente incarico nel 2002, precorrendo di molto i tempi, lei insieme ai suoi parrocchiani decise di creare una ONLUS, “Casa Sant Anna”, che si occupasse proprio degli ultimi. Cosa la spinse allora e cosa è cambiato oggi?
“Nel 2000 in Italia venne fatta la legge sulle Onulus che ha rivoluzionato completamente il discorso del no-profit e dava la possibilità a tante realtà, anche cristiane, di creare delle associazioni con uno scopo benefico utilizzando il 5xmille. Noi abbiamo cercato di cogliere questa occasione e nel 2002 abbiamo creato l’associazione “Casa Sant Anna”. Nel quartiere in cui mi trovavo erano presenti più di 100 nazionalità differenti, si trattava di rifugiati politici e persone in difficoltà. Inoltre ci siamo accorti del grande problema dalla maternità abbandonata e così, come persone amanti della vita prima ancora che come cristiani, ci siamo chiesti come potevamo intervenire per offrire il nostro aiuto. Una fonte di ispirazione è stata per noi la figura di don Giuseppe Dossetti il quale si era reso conto che nel ricco mondo occidentale stava per entrare un’enorme massa di diseredati in cerca di lavoro e di pace. Egli comprese che questa cosa avrebbe minato le nostre sicurezze e per questo vide nell’accoglienza la vera frontiera del futuro. Da qui siamo partiti e nel tempo abbiamo strutturato delle piccole case rifugio, cioè case di accoglienza provvisoria, per persone in difficoltà. Si tratta di persone che hanno bisogno di un sostegno ma che hanno anche risorse personali e capacità da sviluppare e che, con un minimo aiuto, possono persino diventare una ricchezza per il paese che li ospita. È qualcosa che si può fare ovunque e che produce dei risultati. Nella nuova parrocchia di cui sono parroco dal 2006 continuiamo questa attività con le case rifugio. Il sostegno più grande che danno i parrocchiani è nella preghiera e nella raccolta di viveri, il tempo a disposizione è spesso poco ma di qualità. Per cui io penso che in realtà il bilancio sia molto positivo”.
Come si può conciliare l’urgente necessità di gestire l’accoglienza dei migranti con l’imprescindibile esigenza di sicurezza?
“Il problema più grande nell’accoglienza è mettere in sicurezza chi accoglie. Come Casa sant Anna lavoriamo molto sui volontari perché sappiano relazionarsi con gli ospiti e con le persone che vengono a chiedere aiuto, ci deve essere una prossimità evangelica ma anche una tutela di sé e dei propri cari. Il discorso dell’accoglienza richiede discernimento e la stessa responsabilità del buon padre di famiglia, non tutti gli ospiti sono uguali, non tutti i rifugiati sono uguali. L’accoglienza va fatta ma comunicando un reciproco rispetto delle regole, dell’educazione e della legalità. Questo lo si fa anche preparando i volontari. L’inclusione è un processo molto delicato che va fatto da tutte e due le parti”.
Vania Amitrano
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