Nelle primarie del New Hampshire vincono ancora i candidati antisistema. Fra i democratici si impone nettamente Bernie Sanders, che conquista il 60% dei voti e lascia Hillary Clinton ferma al 38,4%, mentre fra i repubblicani domina Donald Trump con il 35,1%.
Tra i quadri democratici un’affermazione di Sanders era prevista: il New Hampshire ha pochi abitanti – circa 1,4 milioni – ricchi, istruiti e in larga maggioranza bianchi, e confina con il Vermont, il suo feudo elettorale. Ma era del tutto inaspettata un’affermazione così netta. Dopo il ritiro di Martin O’Malley – che ha gettato la spugna a urne aperte la settimana scorsa, durante il caucus in Iowa – ci si aspettava un duello ad armi pari fra l’ex first lady e il senatore indipendente, gli unici due candidati rimasti in lizza per la nomination. Ma così non è stato: Sanders ha ottenuto 138 mila preferenze, 50 mila più della Clinton, e si è aggiudicato il voto di 15 delegati sui 24 che rappresentano lo stato.
Non è certo nel New England che si gioca la partita democratica: la Clinton, secondo i sondaggi, ha ancora un ampio margine di vantaggio fra le grandi minoranze etniche – latini e afroamericani – e conta su risultati migliori negli stati del sud. Ma le proporzioni della sconfitta, secondo fonti vicine al suo entourage, avrebbero convinto l’ex first lady a ripensare la sua campagna elettorale, forse facendo saltare le prime teste fra gli strateghi.
Sotto accusa il tentativo di portare lo scontro in casa dell’avversario, dichiarandosi progressive, “progressista”, dopo aver passato tutto il resto della campagna a corteggiare la “maggioranza silenziosa”. La mossa ha scontentato la base della Clinton e ha attirato gli strali di Sanders, che le ha imputato di non poter essere allo stesso tempo progressista e moderata. Ma per il senatore del Vermont, che si è imbarcato nelle primarie con la comoda etichetta di vittima designata delle primarie, ora è il momento di prendere in considerazione il rischio di vincere. Compito impossibile se non ridurrà lo svantaggio agli occhi degli elettori che fino a ieri si consideravano appannaggio della Clinton. Proprio per questo, domani incontrerà il reverendo Al Sharpton, uno dei leader carismatici della comunità nera di New York.
Intanto i repubblicani – preoccupati di attirare l’elettorato centrista, caro alla famiglia Clinton, ma che rispetto a Sanders sembra abitare su un altro pianeta – cantano vittoria.
Per la verità, il New Hampshire ha riservato grosse sorprese ai nove candidati del Grand Old Party. Trump ha staccato nettamente la concorrenza, come non gli era riuscito in Iowa. Perde terreno invece il senatore Ted Cruz, che nello stato del Midwest aveva ottenuto più voti di tutti: nello stato del New England ha ricevuto solo l’11,6% delle preferenze, appena mezzo punto sopra il redivivo Jeb Bush – “La campagna non è morta”, esulta il suo staff – reduce dalla debacle in Iowa. Meglio di entrambi ha fatto John Kasich, il governatore dell’Ohio, che si è fermato al 15,9%, staccato da Trump di quasi venti punti. Al quinto posto il senatore ultraconservatore Marco Rubio, che si è aggiudicato il 10,6% dei consensi, ma promette di fare meglio negli stati del sud. Gli altri candidati – il governatore del New Jersey Chris Christie, l’ex ad di HP Carly Fiorina, il neurochirurgo Ben Carson e l’ex governatore della Virginia Jim Gilmore – hanno ottenuto percentuali sotto il 10%.
Dopo i caucus in Iowa e le primarie in New Hampshire, organizzate nelle stesse date per entrambi gli schieramenti, ora la strada che porta democratici e repubblicani alle presidenziali si biforca. I repubblicani voteranno il 20 febbraio in South Carolina e il 23 in Nevada, mentre i democratici affronteranno l’elettorato dei due stati in ordine inverso, Nevada il 20 febbraio e South Carolina sette giorni dopo. Ma l’appuntamento più atteso è in programma il primo marzo: il Super Tuesday, la giornata campale nella quale i democratici voteranno in tredici stati, i repubblicani in quattordici.
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