Parigi e Berlino litigano sui conti, Katainen e i vertici della Ue, attenti agli umori della cancelliera Merkel, invitano Hollande e tutti i Paesi in difficoltà a “rispettare gli accordi” senza cercare scorciatoie più che inutili pericolose. Mai come adesso l’Europa è apparsa più divisa nel trovare una strategia credibile per battere la crisi ed uscire dalla deflazione in cui soprattutto il nostro Paese (peraltro in buona compagnia) sta precipitando.
Dopo qualche fuoco di paglia e timidissimi segnali di ripresa economica, affogati subito da una marea di problemi e di intoppi, anche l’Italia alla vigilia di scelte politico parlamentari importanti si interroga sul da farsi. Le risposte però, almeno quelle serie, languono imperiosamente. I primi fondamentali cento giorni dell’era Renzi sono passati e adesso di parla di mille giorni perché l’Italia possa vedere qualche spiraglio di luce in materia di rilancio economico. Ma anche in questo caso di certezze nemmeno l’ombra. Ed il paradosso più evidente è che a fronte di una crescita del consenso intorno al leader del Pd, uscito trionfatore anche dal match con la spigolosa e rabbiosa minoranza del partito guidata da Bersani e D’Alema, resta la sostanziale immobilità del quadro politico e sociale.
Quello che non si riesce a capire è perché in presenza di un mandato politico forte, assegnato dalle elezioni europee del maggio scorso, e di un leader come Renzi, fortemente intenzionato a far ripartire la macchina dello Stato, il Paese non reagisce, non cerca di saltare sul predellino dell’ultimo vagone dell’ultimo convoglio che cerca di lasciare la valle di lacrime e sangue di una crisi che non dà tregua da sette otto anni a questa parte.
Le ragioni sono quelle che tutti conoscono e che tutti fanno finta di non vedere. Vediamo brevemente di cosa si tratta. L’Europa chiede austerità e conti a posto per poter magari in una auspicabile seconda fase allargare i cordoni della borsa nel momento in cui “i compiti a casa” (ovvero le riforme strutturali richiesteci da anni ma mai fatte) saranno stati certificati. E tra le prime cose da fare, secondo quanto da Renzi confermato anche ai vertici di Bruxelles, c’è la riforma del mercato del lavoro. Ed ecco la guerra sul Jobs act e lo scontro frontale sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. L’Italia non cambia e su un falso e superato problema come quello delle tutele di garanzia (e con un tasso di disoccupazione giovanile al 44,2% e della media nazionale al 12,3%) riesce addirittura a non trovare un accordo, se è vero che tra la mancata adesione di Forza Italia al progetto del governo e la possibilità di franchi tiratori della maggioranza la riforma potrebbe non vedere la luce con conseguenze facilmente immaginabili.
Renzi resta però ottimista. Un ottimismo difficile da comprendere se si vanno a vedere gli altri problemi che minano l’agenda dell’esecutivo a cominciare dalle riforme istituzionali e dai provvementi in favore dell’economia che dovranno essere varati entro la fine dell’anno.
La verità scomoda per tutti è che il Paese, a cominciare da partiti e sindacati, non intende cambiare passo e pelle. Intoccabili e privilegiati restano al loro posto così come restano immuni da tutto, sia le prerogative dei sindacati che quelle della casta politica e di quella giudiziaria. Il peana dei lamenti è forte, radicato e condiviso. Così le modifiche, o meglio l’abrogazione dell’articolo 18, diventano il cuneo per l’assalto alla cittadella delle prerogative di Cgil Cisl Uil Ugl e di quanti rientrano nell’universo mondo dei protetti e dei protettori italiani. Un’autentica tutela di privilegiati che avviene quando milioni di ragazzi e disoccupati bussano alle porte del mercato del lavoro.
Tocchi le ferie ed i diritti acquisiti di magistrati, professori della scuola e impiegati di Camera e Senato e si alzano barricate legali per difendere” professionalità” che in termini di soldi significano 250 mila euro l’anno per documentaristi e archivisti ma anche barbieri e commessi impiegati nel Palazzo. Gente che dovrebbe, nelle intenzioni degli interessati e di chi li difende, continuare a percepire stipendi molto vicini al livello degli emolumenti riconosciuti al Capo dello Stato. Follia pura, frutto di anni di scorribande e privilegi vergognosi della politica che hanno trasformato lo Stato nella diligenza da assaltare a dispetto di tutto e senza senso della misura e della decenza.
Cosa dire poi di fisco e finanza? Il discorso sarebbe lungo. Di sicuro in ambito comunitario e mondiale, siamo e resteremo ancora per molto i cittadini più tartassati e peggio strozzati dell’emisfero occidentale. Ora una domanda si impone per tutti e per il presidente del Consiglio in particolare: ma siamo davvero convinti che un bonus da ottanta euro al mese e la possibilità di avere il proprio Tfr in busta paga (ovvero soldi dei cittadini che oggi la legge fa prendere solo a fine percorso lavorativo) possano rappresentare la panacea di tutto? Finchè non cambieranno le regole del gioco e la mentalità di tutti , sarà ben difficile immaginare possibili vie d’uscita. Con, o senza taumaturghi di turno.
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