L’Arabia Saudita, secondo la stampa locale, si sta preparando ad eseguire presto 52 condanne a morte in un solo giorno, per lo più di terroristi, ma Amnesty International ha lanciato un Sos, affermando che nella lista insieme ad qaedisti ci sarebbero anche semplici manifestanti della minoranza sciita.
L’Arabia Saudita è tra i paesi che eseguono il più alto numero di sentenze: dal 1985 al 2005 sono state messe a morte oltre 2200 persone. Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni. Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri. L’organizzazione umanitaria Amnesty International denuncia ed esprime rammarico per l’impennata di condanne a morte nel regno: 151 comminate solo dall’inizio dell’anno, un record per gli ultimi 20 anni.
Le condanne a morte, precedenti alla presunta esecuzione di massa appena annunciata, delle quali il mondo occidentale è venuto a conoscenza, riguardano: il poeta palestinese, Ashraf Fayadh, accusato di apostasia. La sua condanna a morte risulta dai documenti processuali visionati da Human Rights Watch, come ha reso noto Adam Coogle, ricercatore di HRW sul Medio Oriente. Il palestinese è stato arrestato dalla polizia religiosa saudita nel 2013 a Abha, nel sud-ovest del Paese, poi nuovamente arrestato e processato nei primi mesi del 2014. La prima condanna prevedeva quattro anni di carcere e 800 frustate, tuttavia dopo la presentazione di un appello, un altro giudice il 17 novembre 2015 ha emesso per Fayadh la condanna a morte dopo avere deciso di non ammettere i testimoni portati dalla difesa. La condanna di Fayadh è basata sulle dichiarazioni di un testimone dell’accusa che lo avrebbe sentito imprecare contro Dio, il profeta Maometto e l’Arabia Saudita, oltre che sul contenuto di un libro di poesie da lui scritto alcuni anni fa.
Ancora prima del poeta palestinese, un altro caso ha suscitato l’intervento di associazioni umanitarie, da Amnesty a Nessuno tocchi Caino, nonché una petizione su Change.org, e un sit in davanti all’ambasciata dell’Arabia Saudita a Roma: quello di Ali Al Nimr, 20 anni, condannato alla decapitazione e alla successiva crocifissione fino a putrefazione. Ad Ali Mohammed Baqir al-Nimr, giovane attivista sciita, nipote di un eminente religioso sciita – Sheikh Nimr Baqir al-Nimr, anch’egli condannato a morte, sono stati contestati reati presumibilmente commessi all’età di 17 anni. È accusato di “partecipazione a manifestazioni antigovernative”(dal 2011, circa 20 persone della comunità sciita, collegate a proteste contro i governo, sono state uccise e centinaia incarcerate), attacco alle forze di sicurezza, rapina a mano armata e possesso di un mitra: è colpevole di “14 reati, come ha valutato la magistratura saudita”. La condanna sarebbe stata emessa sulla base di una confessione estorta con torture e maltrattamenti.
La pena di morte in Arabia Saudita, così come prescritto dalla Sharia, la legge islamica, è prevista per vari reati, tra i quali: omicidio, stupro, rapina a mano armata, traffico di droga, stregoneria, adulterio, sodomia, omosessualità, sabotaggio e apostasia, ovvero la rinuncia dalla religione di Maometto.
La maggior parte delle esecuzioni fino ad oggi, riguardanti soprattutto reati di omicidio e stupro, ma anche un buon numero di reati non violenti come la presunta stregoneria, l’apostasia, la cattiva condotta sessuale e l’uso di sostanze stupefacenti si sono risolti con la decapitazione, uno dei metodi di esecuzione previsti (le donne possono scegliere di essere giustiziate con un colpo di pistola alla nuca per non essere costrette a scoprire il capo).
A.B.
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