Il governo tedesco era al corrente della falsificazione dei test sulle emissioni di gas di scarico da parte di Volkswagen. Lo sostiene il sito di Die Welt.
Il quotidiano conservatore cita un documento del ministro federale dei Trasporti, Alexander Dobrindt, pubblicato lo scorso 28 luglio in risposta a un’interrogazione parlamentare dei Verdi.
Alla richiesta di una presa di posizione sulla questione della manipolazione dei dati tecnici nei test, il ministro si era detto convinto, in linea con “l’opinione della Commissione europea”, che l’impegno di “eliminare i meccanismi manipolativi” non fosse “ancora del tutto affermato nella prassi comune”. E poi, più avanti, dichiarava di sostenere “gli sforzi per lo sviluppo di norme europee con lo scopo di diminuire ulteriormente le emissioni reali delle automobili”.
Il rapporto non fa nomi, ma ammette, implicitamente, che le truffe avvenivano e che Berlino lo sapeva, il che cambia il quadro della questione e interessa il piano politico.
Per ora il governo federale fa quadrato. “Accuse false e inopportune”, ha replicato Dobrindt: “Ho appreso delle manipolazioni lo scorso fine settimana dalla stampa”. Ma le reazioni dei protagonisti della politica dimostrano che preoccupazione suscitata dal Dieselgate è fuori dall’ordinario.
Ieri la cancelliera Angela Merkel ha annunciato la creazione di una commissione d’inchiesta ad hoc e auspicato che “i fatti siano messi sul tavolo nel modo più veloce possibile”. Domani sulla questione si pronuncerà il Bundestag.
E mentre in America si procede all’apertura di un’inchiesta penale, nel resto del mondo si moltiplicano le inchieste. “Nei prossimi giorni avvieremo verifiche che consentano di stabilire se c’è stato un fenomeno del genere anche da noi”, dice oggi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti.
Nel frattempo in Borsa il crollo delle azioni del colosso di Wolfsburg è ancora inarrestabile: stamattina il titolo ha perso ancora l’8,2%, dopo due giorni di calvario in cui la sua capitalizzazione è scesa di 24 miliardi di euro.
Dopo l’ammissione di responsabilità del boss di Volkswagen America, Michael Horn, che ieri di fatto ha messo la testa sul piatto, oggi si è dimesso anche l’AD del colosso Martin Winterkorn. Nel comunicato in cui ha annunciato la decisione, Winterkorn si è detto “scioccato dagli eventi dei giorni scorsi” e “basito dal fatto che irregolarità di tali proporzioni siano state possibili nel gruppo Volkswagen”.
“Non sono a conoscenza di nessun atto illegale da parte mia”, precisa comunque l’AD, che si augura che la giustizia faccia il suo corso: “Il processo di chiarificazione e trasparenza deve continuare”.
Il consiglio di sorveglianza di VW, che ha in programma di esaminare le proposte per una nuova dirigenza la prossima settimana, nelle prossime ore consegnerà agli inquirenti un dossier contenente accuse di carattere personale.
In gioco, però, c’è ben più della tenuta dei conti di Volkswagen. Il gruppo di Wolfsburg è il più grande conglomerato industriale tedesco e rappresenta in tutto il mondo l’efficienza e l’affidabilità della Germania. Una reputazione che adesso rischia di macchiarsi in modo indelebile e di travolgere l’immagine stessa del Made in Germany, con effetti imprevedibili sulla bilancia commerciale.
Bisogna mettere in conto anche un altro danno d’immagine: quello sul fronte interno. Negli ultimi anni, la fiducia dei tedeschi nell’incorruttibilità delle loro istituzioni e delle loro aziende è stata scossa da scandali a ripetizione. Volkswagen, Siemens, Lufthansa, Deutsche Telekom: tutti simboli di quella Germania che nel dopoguerra è riuscita a ricostruirsi come potenza economica mentre si liberava del volto impresentabile del regime nazista.
La caduta di questi simboli fa tremare le fondamenta del sistema politico ed economico della Repubblica federale. Da quando è in carica Angela Merkel, la Germania si è fatta paladina del rigore macroeconomico in Europa, per esempio sposando la battaglia contro il deficit di bilancio degli Stati. Se si accertassero responsabilità a carico di quello stesso governo nella copertura del Dieselgate – sia che si tratti di connivenza dolosa, sia di pura e semplice disattenzione – quell’immagine andrebbe irrimediabilmente in frantumi.
Allora finirebbe in discussione anche l’architettura più profonda del sistema: quel meccanismo di compartecipazione fra Stato, dirigenti e sindacati nelle scelte strategiche dei gruppi industriali che nel dopoguerra ha facilitato il boom economico e garantito l’armonia sociale. Nell’economia dell’informazione dei giorni nostri, l’economia nazionale diventa una fortezza impenetrabile e la trasparenza finisce sacrificata sull’altare della ragion di Stato. Non sono queste le regole del gioco che il governo federale vorrebbe far rispettare agli altri.
Filippo M. Ragusa
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