Italiani-italiani o un po’ meno italiani degli altri? Per poter iscrivere i figli a scuola, alcuni nostri connazionali che vivono in Gran Bretagna hanno dovuto rispondere a questa domanda.
Nei moduli d’iscrizione pubblicati su internet da alcune circoscrizioni scolastiche, infatti, si deve indicare l’origine etno-linguistica dei bambini. Il ragionamento, in principio, si capisce: per imparare l’inglese a scuola, i piccoli che a casa parlano lingue diverse hanno bisogno di assistenza diversa.
L’esecuzione, però, lascia a desiderare. Alla voce “italiani”, il modulo prevede quattro possibilità: ci si può dichiarare “italiani”, “italiani (napoletani)”, “italiani (siciliani)” o “italiani (altro)”. In tempi di Brexit e di ondate xenofobe, qualcuno ha gridato alla schedatura etnica. Anche perché linguisticamente la distinzione non sta in piedi: il napoletano e il siciliano non sono più diversi dall’italiano “standard” – comunque lo si intenda: sulla questione i linguisti non concordano – del genovese, del veneto o di qualsiasi altro dialetto.
Qualcun altro ha pensato si trattasse di uno scherzo o di una notizia falsa. Invece, le verifiche svolte dopo le prime denunce di genitori indignati hanno dato esito positivo: è tutto vero. A mettere online quei questionari sono state proprio le autorità scolastiche del distretto di Bradford – una città di quasi mezzo milione di abitanti, nel nord post-industriale dell’Inghilterra, dove più di un abitante su 5 ha origini straniere – seguite dai colleghi di alcune località del Galles.
L’ambasciata italiana a Londra ha protestato formalmente con il Foreign Office, il ministero degli Esteri del Regno Unito, chiedendo “l’immediata rimozione di questa indebita caratterizzazione pseudo-etnica, che nulla ha a che fare con l’importanza dei genuini connotati regionali o dei dialetti italiani”.
“Si tratta di iniziative locali – spiega l’ambasciatore Pasquale Terracciano – “motivate probabilmente dall’intenzione d’identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari”. Un’iniziativa nata con buone intenzioni, quindi. Ma “di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno”, nota l’ambasciatore. Specie quando si traducono in azioni “involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali”.
Oltretutto, nella categorizzazione adottata dalle autorità britanniche è impossibile non sentire l’eco degli stereotipi nati quando gli italiani emigravano a migliaia per fame e miseria. Una “grave carenza di conoscenza della realtà italiana”, denuncia Terracciano, che ripropone una “visione tardo ottocentesca della nostra immigrazione”. È la spia di una “ignoranza diffusa su altri Paesi” che con le tecnologie di oggi si potrebbe cancellare con uno sforzo minimo. Tutto questo ha spinto l’ambasciatore a chiudere la sua nota di protesta con una notizia di un certo rilievo, ma che a quanto pare oltremanica non è circolata abbastanza: “L’Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato”.
A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all’Italia “deplorando l’accaduto” e assicurando “un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili”. Il Foreign Office, tra l’altro, ha fatto sapere che “verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all’accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese”.
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