“Con un bel cappotto fai carriera, sei un altro uomo, le donne ti cadranno ai piedi!”: le parole del sarto convincono Carmine, il modesto impiegato del comune di Pavia, che è stanco di essere deriso dai suoi colleghi, di essere scambiato per un mendicante, di non poter nutrire dei sogni. Nel film di Lattuada del ’52, ispirato al racconto “Il Cappotto” di Gogol, con il nuovo capo indosso, il modesto impiegato acquista una dignità che lo rende un uomo felice anche se ora non ha più un soldo.
Il cappotto nel cinema non è solo un elemento scenico che si allinea con la moda del tempo. E’ spesso status symbol, mascolinità, forza, sensualità, povertà, mistero e quant’altro. Ha un valore auto semantico, una forza drammaturgica che non solo sposa la storia che gli autori raccontano ma che conferisce, con un linguaggio non verbale, un’identità psicologica ai personaggi.
Gli esempi cinematografici sono talmente numerosi che è difficile operare una sintesi. Ma per mostrare l’ampiezza del valore di questo capo di abbigliamento, si può fare il tentativo di citare personaggi del cinema lontani in termini di contesto e di storia.
Il film di Lattuada è un caso significativo, anche se portato al parossismo. L’ossessione per il cappotto rubato che uccide Carmine, sopravvive anche dopo la sua morte, l’anima dell’impiegato si aggira per la fredda Pavia degli anni ’30 non solo per perseguitare chi in vita lo ha deriso, ma anche per cercare il ladro che gli ha rubato l’anima.
Spostandosi in un contesto lontanissimo, lo splendido cappotto bianco indossato da Magdeleine nel “La Donna che visse due volte” diretto da Alfred Hitchcock ( 1958) è un elemento che contribuisce in modo significativo a conferire al personaggio quella dose di fascino, di candore, di fragilità femminile, nonché di mistero, che portano il protagonista a innamorarsi perdutamente di lei.
I grandi cappotti dei bambini del film “Sciuscià” di Vittorio De Sica (1946 ), ma anche di altri film neorealistici, sono i giacconi smessi dai loro padri. Servono a riparare dal freddo, accompagnano i giovani protagonisti in un mondo segnato dalla povertà e dall’ingiustizia. Quei cappotti dalle spalle troppo larghe, che lasciano scoperte le ginocchia, ci fanno vivere la realtà emozionale dei personaggi che richiederebbero fiumi di parole, a cominciare dai morsi della fame.
Cambiando completamente contesto, il cappotto di cammello di Marlon Brando nel film di Bernardo Bertolucci “L’ultimo tango a Parigi” (1972) diviene nota semantica di un personaggio che non è alla ricerca di uno status symbol, è un americano trapiantato a Parigi, la sua posizione sociale è superiore alla media, ma è un uomo smarrito, travagliato che finirà ucciso da una donna con la quale ha avuto una relazione sessuale fuori dagli schemi morali del tempo.
Se il cappotto di cammello sposa la psicologia dell’alta borghesia, nel film di a “Totò, Peppino e la Malafemmina” ( 1956) i cappotti scuri con il collo di martora dei due indimenticabili protagonisti diventano non solo un elemento comico ma anche espressione di una identità contadina che bisogna proteggere e nascondere allo stesso tempo.
A Milano si parla un’altra lingua, a Milano ci sono i signori e bisogna adeguarsi, a Milano c’è la vita notturna, le malafemmine, così il cappotto diviene un passaporto, per accedere a una realtà lontana dove il freddo è più umano che meteorologico.
Ed ecco il funereo Alberto Sordi che ne “Il Giudizio Universale” di Vittorio De Sica (1962) si aggira con il suo cappotto scuro, nella città sconvolta per fare commercio di bambini.
Si potrebbe andare avanti all’infinito con la dignità, la fierezza, la mascolinità di un Gary Cooper ne l’ “Addio alle armi”, ad Alain Delon in “La prima notte di quiete”, a Burt Luncaster in “Gruppo di famiglia in un interno”, a Greta Garbo in “Anna Karenina”, a Giulietta Masina ne “ La Strada” e tanti altri esempi che vedono perfino l’angelo ne “Il cielo sopra Berlino” indossare un cappotto grigio .
Una conclusione possiamo trarla da questa analisi: il cappotto sottolinea, esprime identità, non c’è da meravigliarsi che torni di moda come annunciato da Pitti Uomo 89. Se la rivoluzione culturale del ’68 lo aveva abolito come espressione di mentalità retriva e perbenista, oggi come reazione alla globalizzazione che tende a spersonalizzarci anche e soprattutto nell’abbigliamento, l’annuncio delle maggiori maison della moda diventerà realtà, in omaggio anche allo stile del made in Italy.
Alessandra Caneva
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