Polly Jean Harvey oggi ha quarantadue anni. Originaria del Dorset, racconta così la sua formazione musicale: “Sono cresciuta ascoltando John Lee Hooker, Howlin’ Wolf, Robert Johnson, tanto Jimi Hendrix e Captain Beefheart… tutto questo è sempre rimasto in me e sembra come essere tornato in superficie in età adulta”.
A 17 anni -racconta- comincia a scrivere canzoni e nel gennaio 1991 forma il suo primo trio, con Rob Ellis alla batteria e Ian Olliver al basso, presto sostituito da Steve Vaughan. Il primo album, “Dry”, esce nel giugno 1992, licenziato dalla Too Pure. I consensi sono immediati e Rollig Stone nomina P.J. miglior autrice e miglior cantante donna dell’anno. “Dry” è un disco molto ruvido, grezzo (perfettamente in linea con le indicazioni low-fi/grunge del momento), in cui le straordinarie capacità compositive e interpretative della Harvey si manifestano già con tutta la loro forza. I testi sono molto diretti, come lo è la musica. Bellissimo il brano d’apertura, il grido quasi disperato di quella “Oh my lover” che si presenta quasi come un manifesto, una dichiarazione d’intenti, della poetica harveyana. E altrettanto degne di menzione ci appaiono almeno “Dress”, “Sheela-Na-Gig” e “Fountain”. I due album successivi sono i due capolavori di P.J. “Rid of me”, del 1993, è un altro disco senza compromessi (prodotto dal grande Steve Albini), il cui unico difetto ci pare però risiedere proprio nella qualità dell’incisione, davvero fin troppo spartana. Dalla travolgente title-track iniziale alla conclusiva ”Ecstasy”, passando per una personale rilettura della dylaniana “Higway ’61 revisited”, è davvero difficile ricordare di questo lavoro solo qualche traccia e non altre: proviamo a farlo indicando in “Legs”, “Missed”, “Snake” e “Me-Jane” alcuni dei suoi momenti più intensi. “To bring you my love” arriva nel 1995 e porta con sé molte novità. Innanzitutto P.J. rompe il sodalizio con Ellis e Vaughan, lasciando spazio a collaboratori che continueranno ad accompagnarla da qui in avanti nel suo percorso, quali Mick Harvey (chitarrista prima dei Birthday Party e poi dei Bad Seeds di Nick Cave) e John Parish. La produzione, inoltre, è affidata ad un altro Ellis, Mark, ai più noto come Flood. Gli arrangiamenti del disco sono molto curati, il suono vira decisamente verso atmosfere più dilatate, più calde, sulle quali la voce della Harvey si staglia come mai aveva fatto prima e mai più farà nei dischi successivi. Il disco vende oltre un milione di copie e viene eletto album dell’anno dal “Village Voice”, da “Rolling Stone”, “USA Today”, “New York Times” e “Los Angeles Times”. Mentre Polly viene nominata artista dell’anno da “SPIN” e ancora da “Rolling Stone”. Anche qui di straordinario impatto il brano d’apertura che dà il titolo al disco (giocato tutto su voce filtrata e basso); così come bellissime le struggenti “C’mon Billy” e “Send his love to Me” (chitarra acustica e voce), la travolgente cavalcata di “Meet ze monsta”, l’inesorabile cadenza quasi liturgica di “Teclo” e la più esplicita e drammatica invocazione conclusiva di “The dancer”. Tre anni dopo, con “Is this desire?”, la “svolta” operata da P.J. è ormai definitiva. Questo disco del 1998 è stato in diverse occasioni ricordato dall’autrice come il suo preferito di sempre. E’ un lavoro molto più personale, intimo, segnato da una più massiccia introduzione di elementi di elettronica e dove è quasi assoluto il predominio dall’accompagnamento per piano (su tutte: la commovente “Angelene”, “The garden” e “The river”). Per chi scrive è un altro grande album, forse l’ultimo pubblicato dalla Harvey, che insieme alla suddetta “svolta” segna fatalmente anche una sorta di punto d’arresto o addirittura di involuzione dal punto di vista creativo. Bella comunque, oltre alle tre canzoni appena segnalate, la delicata title-track finale e le più cupe “Beautiful Leah” e “Catherine”. Come si apprezza l’impeto ritrovato nei due momenti più energici del disco, “Joy” e “No girl so sweet”. Nei credits riappaiono i nomi sia di Rob Ellis che di Mick Harvey e John Parish; la produzione è ancora firmata Flood. Del 2000 è un altro grande successo di critica e di vendite (ancora più di un milione di copie in tutto il mondo) cui l’anno dopo segue il riconoscimento del Mercury Music Prize: l’album è “Story from the city, stories from the sea”. Tra i suoi momenti migliori ricordiamo: “Big exit”, “You said something”, “The whores hustle and the hustlers whore” e il sublime tormento del duetto con Thom Yorke (Radiohead) in “This mess we’re in”. Nel 2004 esce “Uh huh her”, di cui segnaliamo abbastanza convintamente quattro momenti: “Shame”, “Who the fuck?” (in cui P.J. ricorda incredibilmente la Kim Gordon più abrasiva), “The letter” e “You come through”. Passano altri tre anni ed è la volta di dare alle stampe “White Chalk” (ancora soprattutto ballate per piano), memorabile prevalentemente per lo strepitoso tour in solo che è ne seguito ancora per tutto il 2008. Infine, del febbraio scorso è la pubblicazione del modesto “Let England shake”, ultima fatica di quella che resta senza il minimo dubbio una delle migliori interpreti degli ultimi vent’anni. In grado di regalare sempre, dal vivo, le stesse emozioni dei suoi anni più intensi. Emozioni che si sono invece un po’ perse, oggi, nelle sue più recenti produzioni. Da non lasciarsi sfuggire assolutamente l’unica data italiana del suo tour estivo: mercoledì 6 luglio a Ferrara, in piazza Castello, per la sempre validissima rassegna Ferrara Sotto le Stelle, giunta alla sua 16^ edizione.
Riccardo Ruggenini
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento.
Δ
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
© Copyright 2020 - Scelgo News - Direttore Vincenzo Cirillo - numero di registrazione n. 313 del 27-10-2011 | P.iva 14091371006 | Privacy Policy