Una coppia non può riconoscere un figlio come suo se il bimbo è stato generato senza alcun legame biologico con i due aspiranti genitori e grazie ad una madre surrogata. Lo ha stabilito la Corte dei diritti umani di Strasburgo che, ribaltando un pronunciamento della stessa corte del 27 gennaio 2015, ha dato un colpo alle pratiche di ‘utero in affitto’ affermando che l’Italia non ha violato il diritto di una coppia sposata negando la possibilità di riconoscere come proprio figlio un bambino nato in Russia da madre surrogata.
La sentenza d’appello della Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo si riferisce al caso Paradiso-Campanelli. In primo grado l’Italia fu condannata per il suo divieto di maternità surrogata. Attesa per oggi, martedì 24 gennaio, il giudizio della Grand Chambre di Strasburgo vede l’Italia accusata di aver sottratto a due coniugi (Donatina Paradiso, classe 1967, e Giovanni Campanelli, nato nel 1955) il bimbo ottenuto il 27 febbraio 2011 in Russia tramite maternità surrogata. Una vicenda giudiziaria particolarmente intricata, che nasce dalla richiesta dei coniugi di veder trascritto nel loro Comune di residenza – Colletorto, provincia di Campobasso – il certificato di nascita rilasciato in territorio russo. Ma il rifiuto dell’ufficiale di stato civile è stata solo la prima delle grane che hanno investito i coniugi: il 5 maggio 2011 ai due viene formalmente comunicata un’indagine giudiziaria a loro carico per alterazione di stato civile di minore, false dichiarazioni e violazione della legge sulle adozioni. Nell’agosto 2011 l’esame del dna rivela che Campanelli – benché avesse fornito il proprio seme alla clinica russa – non è il padre del piccolo, e la decisione che ne consegue, non avendo i due alcun legame biologico col bambino, è l’affidamento del minore ai servizi sociali prima e ad altra famiglia poi. Giunge l’aprile del 2013, e con esso la conferma giudiziaria dell’intrascrivibilità del certificato di nascita. A nulla vale la difesa di Paradiso e Campanelli, che tenta di mettere in campo la loro buona fede: il 5 giugno 2013 i coniugi vengono esclusi anche dal procedimento di adozione del piccolo. La vicenda arriva alla Cedu, la Corte europea per i diritti dell’uomo, dove i coniugi lamentano la violazione dell’articolo 8 della Carta (rispetto della vita privata e familiare). Il 27 gennaio 2015 Strasburgo si pronuncia a favore dei ricorrenti. Ma l’Italia impugna al supremo organo di giudizio: la Grand Chambre, che tratta il caso nell’udienza del 9 dicembre 2015. Ora la sentenza.
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