Dopo le aperture degli ultimi giorni sulla nuova legge elettorale, e dopo i segnali di distensione arrivati oggi da Bruxelles, le elezioni anticipate in Italia si fanno sempre più probabili.
Andare a votare prima della fine del 2017 taglierebbe via diversi mesi dalla legislatura in corso, la diciassettesima nella storia della Repubblica: le Camere si sono insediate il 15 marzo 2013, dopo le elezioni di fine febbraio. La scadenza naturale del mandato parlamentare, quindi, arriverebbe a marzo del 2018.
Gli argomenti a favore delle elezioni anticipate sono diversi. Tanto per cominciare, nel 2017 si sono tenute, o si terranno, elezioni politiche in parecchi altri Paesi europei: il 15 marzo si è votato nei Paesi bassi, domenica prossima (1° giugno) si voterà in Francia, la domenica successiva in Gran Bretagna (anche lì elezioni anticipate), il 24 settembre in Germania.
Anticipando le elezioni, la politica italiana si aggiornerebbe al clima politico europeo di questi mesi. Viste la crisi della UE e le altre sfide di questi ultimi tempi, forse non è più il caso di farci rappresentare da un Parlamento che riproduce gli schemi del 2013. Anche perché negli ultimi quattro anni e mezzo, nella politica italiana, ne sono successe di tutti i colori: dalla disintegrazione del centrodestra al cambio della guardia nel PD, per non parlare delle peripezie del M5S.
A proposito del Movimento: contrariamente a quanto hanno detto vari esponenti pentastellati, votare a settembre – il 10 come ha scritto Beppe Grillo o il 14 come ha detto Luigi Di Maio – non impedirebbe ai parlamentari di prima nomina di maturare le pensioni (pensioni, e non vitalizi: quelli sono stati già aboliti). Lo spiega l’analisi del sito di fact-checking Pagella politica.
Le Camere uscenti restano in carica fino all’insediamento delle successive, che secondo l’Articolo 61 della Costituzione deve avvenire entro venti giorni dal voto. È il principio della prorogatio, applicato per evitare vuoti di potere fra una legislatura e l’altra. I parlamentari di prima nomina – cioè quelli eletti a febbraio 2013, non quelli subentrati a legislatura in corso – maturano la pensione dopo quattro anni e sei mesi di mandato, cioè il 15 settembre. Ma il mandato si deve intendere prolungato fino a quando non entreranno in carica i nuovi onorevoli, e quindi, per farlo terminare prima del 15 settembre, bisognerebbe votare nell’ultimo fine settimana di agosto, in piena stagione di vacanze.
Il nodo da sciogliere per andare alle urne, naturalmente, è quello della legge elettorale. In questo momento sono in vigore due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato: a Montecitorio si applica il cosiddetto Italicum, a Palazzo Madama quel che si chiama Consultellum, cioè il Porcellum modificato dalla Corte Costituzionale.
La ragione di questo scollamento, com’è noto, è l’intenzione del governo Renzi di riformare radicalmente il Senato, che non sarebbe stato più eletto dai cittadini. La legge di riforma costituzionale si è arenata al referendum del 4 dicembre, e quindi per il vecchio Senato è rimasta in vigore la legge elettorale preesistente, cioè le parti della legge del 2005 sopravvissute all’esame della Consulta.
Il Senato si continuerebbe a eleggere con il metodo proporzionale in collegi regionali, esclusi Molise, Trentino-Alto Adige, Val d’Aosta ed estero, divisi in collegi uninominali. Scomparsi invece i 17 premi di maggioranza regionali, giudicati incostituzionali perché non avevano una soglia minima, e anche le liste bloccate, che violano il principio per cui il cittadino ha diritto di scegliere il proprio rappresentante. Resta invece l’articolato sistema di soglie di sbarramento che premia le liste che si coalizzano prima delle elezioni.
Alla Camera, invece, si voterebbe con l’Italicum, anch’esso modificato dalla Consulta: un altro sistema proporzionale corretto con un premio di maggioranza di 340 seggi (il 55% della Camera) che si assegna solo se una lista raggiunge il 40% dei voti. Qui ad essere bloccati sono solo i capilista (per gli altri candidati si applicano le preferenze di genere, cioè l’elettore può votare per un uomo e una donna) e la soglia di sbarramento è unica, fissata al 3% su tutto il territorio nazionale, e si applica solo alle singole liste.
Le due leggi, per usare un eufemismo, non mettono tutti d’accordo. E le profonde differenze tra l’una e l’altra non aiutano a conciliare le posizioni. Per questo tutti i partiti vorrebbero una nuova legge elettorale. Sì, ma quale?
Nelle ultime settimane l’espressione “sistema tedesco” ha raccolto i consensi di gran parte delle forze politiche. Ma oltre la frase di rito – che ha già partorito il suo soprannome latineggiante, Germanicum – non c’è ancora un testo di legge che metta nero su bianco i principi, e al quale ci si possa dire chiaramente favorevoli o contrari.
Per il momento – e con l’avvertenza che potrebbe ancora cambiare tutto – sembra che con “sistema tedesco” si intenda un sistema che combina elementi del maggioritario e del proporzionale, con una soglia di sbarramento più alta di quella ora in vigore in Italia.
In Germania il Bundestag si elegge così. Ogni elettore vota su due schede separate: con una esprime la sua preferenza per un candidato nel suo collegio uninominale (questa è la parte maggioritaria), con l’altra vota per una lista in un collegio unico nazionale (questa è la parte proporzionale). I seggi si distribuiscono in modo proporzionale fra le liste che superano il 5%, ma allo stesso tempo si garantisce la presenza in Parlamento a tutti i candidati che hanno vinto nei rispettivi collegi. Questo è possibile perché in Germania il numero dei parlamentari non è fisso: in questo modo, se un partito ha ottenuto più seggi uninominali di quanti gliene spetterebbero, i seggi attribuiti alle altre liste si possono aumentare in proporzione.
Anche in Italia è esistito un sistema misto che combinava elementi del maggioritario e del proporzionale: il Mattarellum, in vigore dal 1993 al 2005. Tre quarti dei deputati e dei senatori erano eletti a turno singolo in collegi uninominali, quindi con il metodo maggioritario. Gli altri erano eletti con il proporzionale, ma in due modi diversi: al Senato si ridistribuivano i seggi fra i non eletti in base alle percentuali di voto dei rispettivi partiti (il cosiddetto “scorporo”); alla Camera, invece, gli elettori votavano una lista separata in un collegio unico nazionale.
Rispetto al sistema tedesco il Mattarellum favoriva gli accordi pre-elettorali: partiti diversi univano le forze per sostenere i candidati alleati nei collegi uninominali in cui erano più forti. In Germania, invece, la ripartizione proporzionale pura aiuta i partiti che contano di più sulle proprie forze. Semmai favorisce le coalizioni: l’ultima legislatura in cui un partito ha governato da solo è finita nel 1957. Le proiezioni pubblicate da Il sole 24 ore mostrano che anche qui, se si votasse ora con il sistema in vigore in Germania, per poter governare sarebbe necessario allearsi.
Il sistema tedesco è efficiente: la distribuzione dei seggi rispetta il peso rispettivo delle forze politiche tra i votanti, e i collegi uninominali permettono che si formi un rapporto forte tra eletti ed elettori. Ma così com’è, in Italia non si può applicare.
La nostra Costituzione fissa i numeri dei parlamentari: 630 deputati e 315 senatori, più quelli nominati a vita. E tra i sistemi politici dei due Paesi ci sono altre differenze fondamentali: la Germania è una federazione, il Bundesrat – la sua camera alta – è espressione delle rappresentanze dei Länder e non ha le stesse prerogative del nostro Senato. L’Italia invece è uno Stato unitario dove vige il bicameralismo perfetto.
Per applicare il modello tedesco all’Italia, quindi, bisognerà modificarlo radicalmente: un processo destinato a scontentare almeno qualcuno fra chi ora si dichiara favorevole. Diversi soggetti politici hanno già iniziato a dettare le loro condizioni per l’assenso.
Il Movimento 5 stelle, attraverso il blog di Beppe Grillo, ha già detto la sua: “Laddove dovesse capitare che il numero di seggi vinti da un partito nei collegi uninominali eccedesse il numero dei seggi ottenuti nel riparto proporzionale, quest’ultimo deve prevalere”. Grillo propone anche di aggiungere un premio di maggioranza, che in Germania non esiste, come d’altronde in quasi tutto il resto del mondo (è in vigore solo in Italia e in Grecia).
Pareri sull’applicazione arrivano anche dal PD. “Lo sbarramento deve restare al 5%”, ammonisce Dario Parrini, segretario del partito in Toscana ed esperto di leggi elettorali. Per poi aggiungere: “Le liste della quota proporzionale devono essere corte, con i nomi dei candidati sulla scheda. L’elettore deve essere in grado di riconoscere e giudicare chi elegge”.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Salva il mio nome, email e sito web in questo browser per la prossima volta che commento.
Δ
Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
© Copyright 2020 - Scelgo News - Direttore Vincenzo Cirillo - numero di registrazione n. 313 del 27-10-2011 | P.iva 14091371006 | Privacy Policy