E’ cominciata la grande sfida per l’anello ( come chiamano negli States il titolo di campione NBA, visto che un anello è il simbolo della vittoria finale, trofeo tradizionale a parte), prevista sulla lunga distanza delle sette partite ( esemplificando, per vincere la serie occorre riportare quattro vittorie), tra Miami Heat, vincitori della Eastern Conference, e Dallas Mavericks, trionfatori nella Western Conference. Finale di grande suggestione e dal pronostico molto incerto.
La finale più attesa? Sì e no. Sì perché il potenziale della franchigia della Florida è enorme. Impreziosito dall’acquisizione del giocatore, forse, di maggior impatto di tutta la Lega: LeBron James. Non a caso, soprannominato “Il prescelto” ( con la i maiuscola, sia ben chiaro). Un predestinato al successo, indicato da tutti gli osservatori, sin dai tempi dell’Università, come colui che più di chiunque altro avrebbe potuto raccogliere il testimone dall’immenso Michael Jordan come il più forte giocatore di basket di tutti i tempi. Un’investitura mica da ridere, non c’è che dire. Ma anche un indubbio fardello da dover sopportare ogni stagione. Del resto, siamo negli USA, il paese natale della casa editrice Marvel, fantastica fucina di fumetti con i supereroi come protagonisti assoluti. E qual’era il refrain delle vicende del più noto “figlio” della Marvel, l’Uomo Ragno? “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Calza a pennello anche per il nostro. E lui lo sa. E nel parallelo infinito che è sempre stato fatto tra LeBron e MJ si è sempre sottolineato come il grande “Air” Jordan avesse dovuto attendere sette anni per conquistare con i suoi Chicago Bulls il suo primo anello. E l’anno scorso è decorso proprio il settimo anno di basket professionistico per LeBron James. Sempre con indosso la canotta dei Cleveland Cavaliers. Risultato? Zeru tituli, per dirla alla Mourinho. Con l’unica finale raggiunta ( e persa) nel 2007 contro i San Antonio Spurs. E con l’uscita, molto dolorosa, nei quarti di finale dell’ultima postseason per mano dei Boston Celtics. Occorreva allora porre rimedio a quest’emorragia di tempo per non vedersi sopraffare dall’ingombrante paragone. Di qui la scelta, enfaticamente ( e anche un po’ pomposamente) annunciata in diretta tv, davanti a un’America che attendeva la scelta con il fiato sospeso come si trattasse di un annuncio sui destini della nazione da parte dell’inquilino della Casa Bianca, di fare le valige. Destinazione la Florida. I Miami Heat. Dove avrebbe trovato un altro fenomeno, Dwayne Wade, e avrebbe composto, con Chris Bosh, un terzetto da sogno, i Big Three, con cui partire all’assalto di quel titolo che tardava ad arrivare. Ma sarebbero stati compatibili i tre? Questo era l’interrogativo che tutti gli appassionati a stelle e strisce ( e non solo, vista la visibilità planetaria di cui godono le vicende del basket NBA) si ponevano. Ora che si è arrivati all’atto conclusivo della stagione, si può rispondere con un sì incondizionato. Ma, ancora: possedevano gli Heat un “cast” di comprimari all’altezza per supportare le ambizioni dei tre fuoriclasse? Anche qui la risposta fornita dal campo è stata affermativa. Per cui, risolti i due dubbi amletici, la presenza in finale della franchigia della Florida non deve sorprendere, anche se si sarebbe potuta ipotizzare un’ennesima apparizione dei Boston Celtics, altrettanto talentuosi, ma più esperti, o dei Chicago Bulls, vera rivelazione dell’annata e titolari del miglior record della regular season ( con il conseguente beneficio del fattore campo da poter sfruttare sino alla fine dei playoff). Dall’altra parte, i Dallas Mavericks. Molti direbbero: “Cioè, Dirk Nowitzki”. Sbagliatissimo. Il tedesco, 33 anni tra pochi giorni, da 13 in Texas, è la stella della squadra, non c’è dubbio. Il più forte cestista straniero che abbia mai calcato i parquet d’oltreoceano, altrettanto vero. Fortemente indiziato ( a volersi tenere prudenti a tutti i costi, in realtà è scontato) di entrare, a carriera conclusa, nella Hall of Fame del basket a stelle e strisce. Accostato da molti al leggendario Larry Bird, il quale non si è mai risentito del paragone. E Larry è sempre stato un tipo piuttosto permaloso. Qui a Dallas è un monumento vivente, l’unico giocatore, peraltro, insieme a Jason Terry, ad aver disputato anche la serie finale del 2006. L’unica mai raggiunta nella storia della franchigia texana. Gli avversari di allora? I Miami Heat, guarda tu il destino. Resta il più grande cruccio nella carriera di “WunderDirk”. I Mavs, allora, balzarono in testa per 2 a 0 nella serie, dopodiché si riuscirono a portare avanti di ben 13 punti a 6 minuti dalla fine di gara3. Persero incredibilmente quella gara. Persero anche le successive tre. Si era improvvisamente spenta la luce. Gli Heat poterono festeggiare, così, il loro primo e al momento unico titolo. Il tedesco, signorilmente, si assunse tutte le responsabilità di quella sconfitta. Anche quelle non sue. Ma non l’ha mai digerita. Strepitoso tiratore ( 92,9% dalla lunetta negli attuali playoff, seconda miglior prestazione di tutti i tempi, e un impressionante 64% totale al tiro), cecchino micidiale anche da tre, ottimo anche in difesa. Tanti i riconoscimenti individuali incassati in anni di carriera NBA. Mai un titolo di squadra. Ricorda molto da vicino la vicenda di qualcuno, no? Ma Dallas, quest’anno anche più che nel 2006, non è solo Nowitzki. C’è di più. Lo cantavano Sabrina Salerno e Jo Squillo. Lo pensavano i dirigenti dei Mavs quando hanno allestito la squadra. Lo sanno tutti gli appassionati che seguono, anche solo distrattamente, le vicende NBA. Difatti, ci sono altri campioni come Terry, Kidd ( uno dei migliori playmaker in circolazione da almeno 10 anni, Steve Nash a parte), Marion ( avrà l’ingrato compito di doversi dedicare alla marcatura di LeBron), Barea, Chandler, Stojakovic ( le cui quotazioni, però, sono ultimamente un po’ in ribasso). Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, sì, Dallas in finale ci sta e alla grande. Pur se i campioni in carica erano i Lakers ( ma l’impressione che il ciclo di quel gruppo fosse al termine c’è sempre stata) e nonostante l’incredibile stagione dei redivivi San Antonio Spurs ( con l’eterno terzetto Duncan, Parker, Ginobili). Ma gli “speroni”, dopo aver dominato in regular season, hanno completamente “bucato” nei playoff, uscendo subito per mano di Memphis. Un pronostico? Si affrontano due squadre che più diverse di così è difficile immaginare. La grande difesa degli Heat contro le grandi percentuali di tiro dei Mavs. Ma è un’esemplificazione eccessiva. Il talento individuale contro il collettivo? Neanche a parlarne. Di talento abbondano entrambe ( più concentrato quello degli Heat, più diluito quello di Dallas) e i rispettivi coach, Spoelstra e Carlisle, sanno fin troppo bene cosa vuol dire dare una fisionomia di gioco alle proprie “creature”. Miami, però, sembra in grado, nelle sue espressioni di vertice, di poter raggiungere un livello difficilmente sostenibile da altri, oggi. E ha il vantaggio del fattore campo nell’eventuale gara7. Quella senza appello. Quella che potrebbe decidere questa serie.
Intanto, gli Heat hanno vinto gara1 per 92-84 a Miami. Ma non è un risultato che può dare ancora indicazioni così precise. In fondo, per usare un gergo tennistico, hanno semplicemente tenuto il loro primo turno di battuta. E il set è ancora lungo.
Daniele Puppo
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