I rischi legati alla Brexit spingono le banche inglesi a scappare dal Regno Unito. È l’allarme di Anthony Browne, presidente della British Bankers’ Association (BBA), l’associazione degli istituti finanziari britannici.
Secondo Browne, i colossi della City stanno considerando la possibilità di trasferire la loro sede lontano da Londra fin dai primi mesi del 2017; le banche minori addirittura da prima di Natale. Nell’intervista che ha concesso a The Observer, Browne avverte che un’eventuale hard Brexit – un divorzio non del tutto amichevole fra Londra e la UE – brucerebbe migliaia di posti di lavoro nel Regno Unito, e ricorda che nel referendum di quattro mesi fa i rappresentanti della finanza londinese si erano schierati per il Remain.
“Il dibattito pubblico e politico al momento ci sta portando nella direzione sbagliata”, sostiene Browne. In effetti, le trattative ufficiali per definire i termini del divorzio non sono ancora iniziate, ma alcuni segnali sono già emersi in modo inequivocabile. “Hard Brexit significa trattative dure”, come ha ricordato il presidente francese François Hollande alla premier inglese Theresa May.
Prima del 23 giugno, la May era rimasta al fianco dell’allora premier David Cameron nell’ala europeista del Partito Conservatore. Ma poi i Tories l’hanno scelta per guidare il partito e il governo, e si è dovuta assumere l’incarico di pilotare il Regno fuori dall’Unione. E quindi è dovuta venire incontro al volere delle urne: piena sovranità sulle frontiere e piena autonomia dei tribunali d’Oltremanica dalle decisioni prese a Bruxelles. Ma in questo modo si è giocata la possibilità di un soft Brexit che avrebbe mantenuto il Paese all’interno dello spazio economico privilegiato, come avviene ad esempio per Norvegia e Svizzera.
Ora la May deve destreggiarsi fra le richieste di autonomia totale e il mantenimento almeno di una quota delle condizioni di favore nel mercato unico, conditio sine qua non per mantenere competitivo il made in UK. Mancare l’obiettivo costerebbe carissimo: oltre alla finanza – che produce da sola il 12% del PIL del Regno – ci sono in gioco anche il settore automobilistico e diversi comparti industriali minori.
La massima autonomia possibile coincide con lo scenario peggiore per banche e aziende britanniche: se uscisse sbattendo la porta dal mercato unico europeo, gli scambi fra Londra e il resto d’Europa rientrerebbero sotto i regolamenti del WTO, e tornerebbero dazi doganali e quote. Sarebbe una sciagura senza precedenti per le banche della City, che prestano agli operatori europei più di un trilione di sterline.
Per evitare il peggio, almeno in teoria, resterebbe aperta la possibilità di un accordo bilaterale. Sembra suggerire questo il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond quando si mostra sicuro di poter tenere almeno la City al riparo dall’uragano Brexit. Ma le ultime notizie mostrano che iniziative del genere riescono solo se si mettono tutti d’accordo: proprio in questi giorni il veto della piccola Vallonia, la regione francofona del Belgio, rischia di mandare in fumo sette anni di negoziati su un accordo di libero scambio fra UE e Canada.
A Londra, intanto, si cerca spasmodicamente un’alternativa lessicale che faccia sembrare più morbido il distacco: l’ultimo ritrovato è lo smooth Brexit, una variante “dolce” del divorzio. La premier May si è detta sicura di riuscire a concluderlo senza per questo cedere su punti chiave come il no alla libera circolazione e il no alle corti europee. Ma gli altri 27 Stati UE non sembrano disposti a concederglieli: fra l’altro, se il Regno Unito riuscisse a mantenere un piede nel mercato comune senza accollarsi le responsabilità di far parte dell’Unione, diversi Stati ne seguirebbero l’esempio senza esitare un attimo.
I due anni di trattative, insomma, non si annunciano né soft né smooth. Lo conferma anche la scelta di due “falchi” nel ruolo dei negoziatori: nell’angolo inglese siede David Davis, un Tory di ferro, in quello comunitario l’economista gollista Michel Barnier. Ma quando i politici promettono battaglia, i mercati hanno paura. Negli ultimi quattro mesi, la sterlina ha perso il 15% contro il dollaro USA, e la Bank of England ha dimezzato i tassi (e si è riservata di intervenire ancora nello stesso senso). La Borsa di Londra sulla carta cresce – più 8% dall’inizio dell’anno –, ma il guadagno si trasforma in perdita una volta incrociato con i dati dei cambi.
“La volontà di rompere con l’Unione dimostrata con il voto di giugno – nota Leonardo Maisano in un articolo su Il Sole 24 Ore – non coincide affatto con la disponibilità a pagarne il prezzo”. E il rischio per i cittadini britannici è che il “sì” alla Brexit, a distanza di mesi o anni, si tolga la maschera e riveli il volto di un “sì” all’impoverimento.
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