Riusciremo a salvare la terra e noi stessi? La risposta sta nei nostri geni. Per i nativi messicani la possibilità di riadattamento a nuove condizioni ambientali nel corso del tempo è stata più alta che per altre popolazioni. Poi, quando c’è stata un’accelerazione nei cambiamenti, il discorso è cambiato.
L’osservazione proviene da uno studio coordinato dall’ ‘Alma mater’ di Bologna, la più antica università del mondo tuttora in funzione, che ha analizzato il genoma di circa 300 individui facenti parte di 15 gruppi etnici messicani per ricostruire la loro storia evolutiva e capire come questa possa aver contribuito a influenzare le loro risposte ai cambiamenti globali in corso.
Per effetto della selezione naturale, le popolazioni native del Messico hanno dunque evoluto peculiarità biologiche che hanno permesso loro di adattarsi nel corso del tempo alle condizioni ambientali e sociali in cui le loro civiltà si sono sviluppate. La radicale trasformazione di queste condizioni in epoca moderna e i cambiamenti globali in atto ancora oggi sono stati però talmente rapidi da non permettere un ulteriore adattamento, in alcuni casi mettendo a rischio la salute di questi popoli. I risultati degli studiosi di Bologna infatti mostrano che numerose caratteristiche biologiche dei nativi messicani, compresa la suscettibilità ad alcune malattie, sono state variamente influenzate dalla loro storia evolutiva. Una serie di dati che potrebbero rivelarsi utili proprio per mettere a punto azioni specifiche in campo medico.
Gli studiosi dell’Ateneo di Bologna hanno identificato una serie di macro-gruppi omogenei dal punto di vista genetico. I Seri, ad esempio, sono un popolo del Messico settentrionale e mostrano modifiche nei geni convolti nel metabolismo degli zuccheri, nella percezione del dolce e nella regolazione del glucosio nel sangue. Caratteristiche evolute probabilmente in risposta a una dieta che fino alla metà del secolo scorso era basata su frutta, semi e piante. Un modo, insomma, per ridurre i rischi associati a un regime alimentare ricco di zuccheri. I Raramuri invece sono un gruppo semi-nomadico e il mais è la loro fonte primaria di cibo. Nel loro genoma, ci sono combinazioni uniche di varianti su geni che regolano il metabolismo energetico, il consumo di ossigeno e la temperatura corporea durante uno sforzo fisico intenso e duraturo. Ma anche modificazioni genetiche che potenziano il funzionamento della barriera intestinale, bersaglio principale delle micotossine che si sviluppano quando il mais viene conservato per lungo tempo.
Adattamenti genetici svantaggiosi rispetto agli stili di vita contemporanei sono quelli osservati invece nelle popolazioni del Messico centrale. Il consumo abituale, per motivi medici o religiosi, di piante con effetto psicoattivo e bevande alcoliche fermentate ha determinato nel corso dei millenni varianti nei geni che aumentano la tolleranza nei confronti degli effetti nocivi di queste sostanze, conferendo però un più elevato rischio di sviluppare dipendenze. Un rischio aggravato da cibi e bevande oggi in commercio che stravolgono le diete tradizionali. Infine, i gruppi etnici del Messico meridionale presentano varianti genetiche in grado di ottimizzare le risposte immunitarie contro malattie endemiche di quest’area, come la malattia di Chagas e la leishmaniosi cutanea. Le persone infette dunque non presentano in genere comorbidità gravi o sviluppano la malattia in forma asintomatica.
“Abbiamo focalizzato l’attenzione su comunità indigene non mescolate (rappresentano circa il 20% dell’intera popolazione, ndr) – spiega Marco Sazzini, docente del Dipartimento di scienze biologiche dell’Ateneo di Bologna e coordinatore dello studio- il cui patrimonio genetico può rappresentare un’approssimazione il più fedele possibile a quello delle popolazioni delle principali civiltà precolombiane in Messico, tra cui Maya e Aztechi. In questo modo è stato possibile indagare le basi genetiche delle caratteristiche biologiche tipiche di questi popoli, che i loro antenati hanno evoluto in migliaia di anni prima dell’arrivo degli europei nel continente americano”. Le informazioni che sono state raccolte “potranno essere utilizzate per sviluppare iniziative di prevenzione mirate per ciascun gruppo etnico, in un’ottica di medicina personalizzata“, sottolinea Claudia Ojeda Granados, ricercatrice dell’Alma Mater e prima autrice dello studio. “Indagini come questa- aggiunge Sazzini- dimostrano l’efficacia di un approccio evoluzionistico allo studio delle malattie, che è complementare e non alternativo a quello della ricerca biomedica. Questo approccio è utile per approfondire la comprensione dei rischi per la salute umana connessi ai cambiamenti ambientali, ecologici e culturali a cui il nostro pianeta e tutte le sue popolazioni sono andati incontro in epoca moderna”.
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