Paula Cooper si è tolta la vita a 45 anni con un colpo d’arma da fuoco. Nel 1986, a sedici anni non ancora compiuti, era diventata la più giovane detenuta nel braccio della morte a Indianapolis.
Il 14 maggio 1985, assieme ad altre tre adolescenti, Paula Cooper aveva ucciso con trentatré coltellate un’insegnante in pensione di 78 anni, Ruth Pelke, per rapinarla. Tutte e quattro le ragazze si erano dichiarate colpevoli, ma solo per lei il giudice aveva emesso la sentenza capitale.
La notizia della sua condanna scatenò una campagna di mobilitazione internazionale contro la pena capitale e contro la legislazione allora in vigore nello stato dell’Indiana, che permetteva di mandare sulla sedia elettrica perfino bambini di dieci anni.
La campagna ebbe un’eco vastissima in tutto il mondo: per chiedere clemenza nei suoi confronti, papa Giovanni Paolo II rivolse un appello personale all’allora governatore dell’Indiana Robert Orr, mentre il comitato Non uccidere, fondato tra gli altri da esponenti del partito radicale, presentò all’Assemblea generale dell’ONU una petizione con due milioni di firmatari, primo atto della battaglia contro la pena di morte che avrebbe portato l’Assemblea ad approvare nel 2007 la raccomandazione sulla moratoria universale delle esecuzioni.
Nel 1988 la Corte Suprema USA dichiarò l’incostituzionalità della pena di morte comminata a persone sotto i sedici anni di età. Il limite è stato alzato a diciotto anni in un’altra sentenza emessa nel 2005.
Nel processo di secondo grado, Paula Cooper ottenne la conversione della pena in sessant’anni di carcere. Ne scontò ventisei, con una consistente riduzione di pena per buona condotta. Era uscita di prigione nel 2013.
F.M.R.
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