Per la Chiesa cattolica è tempo d’Avvento, l’attesa della nascita del Redentore dell’Umanità. Il tempo, ha detto il Papa all’Angelus in piazza San Pietro domenica scorsa, di “svegliarsi dal sonno dell’indifferenza, dalla vanità, dall’incapacità di instaurare rapporti umani”.
Nel tempo d’attesa del Natale si addobbano case, negozi, strade. Nelle case si preparano alberi luccicanti sotto o a fianco dei quali il presepe trova qualche volta un piccolo spazio.
A Napoli l’arte presepiale è tramandata da secoli. La storia d’amore fra la città e la rappresentazione della Natività dura da mille anni: la prima menzione del presepe è in un atto notarile del 1021. Ma il secolo d’oro del presepe napoletano è il Settecento: in una città ancora fra le capitali culturali e artistiche del mondo, le famiglie nobili si sfidano per il presepe più bello e ricco. Le statue di terracotta sembrano vive; vestiti e gioielli sono fatti da laboratori specializzati con veri materiali preziosi. Realizza presepi perfino Giuseppe Sanmartino, lo scultore del “Cristo velato”.
E sempre a Napoli c’è un’altra tradizione, anche questa conosciutissima nel mondo: il ‘Natale in casa Cupiello’, la fortunatissima commedia di Eduardo de’ Filippo dove il battibecco in dialetto tra padre e figlio – “Tommasì te piace ‘o presebbio?”… “Nun me piace”…. “Il presepe che è una cosa religiosa…”…. “Si, una cosa religiosa.. e a me nun me piace, nun me piace e basta!”- che dal 1931 ad oggi ha attraversato l’intero Novecento è diventato la nuova Sacra rappresentazione del Natale vissuto dal popolo: un padre, Lucarie’, tradizionalista, il figlio ‘moderno’, e una madre, Cunce’, nel ruolo di mediatrice tra i desideri dell’uno e dell’altro.
Il presepe punto cruciale nel lavoro teatrale del grande Eduardo, argomento di richiamo di Papa Francesco che nel primo giorno di dicembre si è recato a Greccio, luogo dell’appennino laziale che ha visto nascere la prima Natività della storia per mano di San Francesco. Seduto davanti all’affresco con la Madonna che allatta il Bambino Gesù, il Pontefice ha probabilmente riletto la sua lettera apostolica sul presepe, prima di pubblicarla. E sicuramente non avrà potuto fare a meno di ricordare tutte le volte che nel nome è stato bandito da scuole e spazi comuni, oppure quando una canzoncina per bambini dell’asilo è finita ritoccata nel testo e nelle rime per non offendere le orecchie di coetanei di altre religioni.
“Admirabile signum”. Così lo definisce Papa Francesco: il presepe è l’anima non solo della fede, ma del popolo. Lo volle un uomo inviso ai potenti e vicino alle stalle, che sapeva dell’odore del gregge e a Greccio, ultimo degli ultimi borghi dell’Appennino, ricordò ad un cardinale di nobili natali che Cristo è del popolo. Di più: è popolo.
Se il presepe non hanno mai smesso di farlo nelle case, in questi otto secoli esatti, vuol dire che davvero riflette l’essenza della gente normale. E allora è una vera sciagura lasciare che venga travolto da un’onda di indifferenza.
Chiede, Francesco nella sua “Admirabile signum“, che si torni a rappresentarlo nelle scuole e nelle piazze: esattamente là dove era stato rimosso negli ultimi lustri, con la scusa che non tutti sono credenti e a qualcuno potrebbe dare fastidio. È vero il contrario, dice: si tratta di “Vangelo vivo”, “esercizio di fantasia creativa” da sostenere “nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle carceri, negli ospedali, nelle piazze”. Insomma, al tempo stesso simbolo di salvazione e specchio della più profonda anima popolare. Italiana e no.
“Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme”, sottolinea Francesco nella missiva. “Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento”, spiega ancora, tuttavia, la “rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali”.
Anche sul presepe, povero san Francesco, ormai da anni si gioca una battaglia ideologica sul filo di quel politicamente corretto che sta annichilendo l’occidente, sbiadendone l’identità e minando le basi valoriali che l’hanno reso quel che è. Ottenendo pure l’effetto opposto, ovvero attirando sull’occidente il disprezzo di chi, non cristiano, vede una civiltà che in nome di una neutralità che non può esistere, relega nella sfera del cosiddetto privato tradizioni, simboli e credo.
Secolarizzazione e relativismo stanno minando le radici cristiane dell’Occidente e oggi il cristianesimo, che piaccia o no, si gioca sempre di più all’interno di una realtà interculturale e interreligiosa. Ma dobbiamo ugualmente evitare di rivestire d’ideologia ciò che quella capanna e i suoi ospiti rappresentano, e cioè – per usare le parole di Benedetto XVI – “il Dio che viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno. Ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà”.
Solo così si riuscirà a dare il giusto senso valoriale a ciò che il presepe rappresenta e ha sempre voluto rappresentare, al di là delle tante rappresentazioni folkloristiche che anche quest’anno non ci verranno risparmiate. L’anno scorso ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, allestirono un presepe denuncia del dramma dei migranti: due manichini, per raffigurare Gesù e Maria, immersi in un mare di bottiglie di plastica e Gesù Bambino, di colore, adagiato su un salvagente arancione, lo stesso utilizzato per il salvataggio in mare.
A Natale siamo tutti più buoni, dicono ancora nelle pubblicità di panettoni e pandori. Talvolta, però siamo anche ideologici. Di conseguenza, capita che ci sia qualcuno che voglia tirare il Gesù Bambino per le vesti, portandolo da una parte e dall’altra.
Non ci resta che attendere con pazienza le novità di quest’anno, nella speranza che non scadano come è già successo nel cattivo gusto, talvolta nel dissacrante. Perché si deve ammettere, come diceva Eduardo, che “il presepe è una cosa sacra”. Da tenere nel posto giusto e nella giusta considerazione almeno una volta l’anno.
Alessandra Binazzi