Il Muslim ban è illegittimo e non dev’essere applicato. Questo il verdetto deciso all’unanimità dalla Corte d’appello federale di San Francisco sul controverso ordine esecutivo, decretato dal presidente USA Donald Trump, che quando era in vigore vietava l’accesso negli USA ai cittadini musulmani di sette Stati africani e mediorientali (Iraq, Iran, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen).
I tre giudici del panel hanno confermato la decisione presa in primo grado dal giudice James Robart su ricorso dello Stato di Washington.
“Il governo non ha fornito prove che alcun cittadino di alcuno degli Stati nominati nell’ordine abbia commesso un attacco terroristico negli Stati Uniti”, recita il dispositivo. “Invece di presentare prove a sostegno della necessità del provvedimento esecutivo”, si legge nel testo, “il governo ha preso la posizione secondo cui noi non dovremmo in alcun modo riesaminare le sue decisioni”.
È stata una sonora sconfitta per la linea del presidente, rappresentata in aula dal legale del dipartimento di Giustizia. Trump si è affrettato a twittare – a caratteri cubitali, gesto che nell’etichetta di internet equivale a urlare – che farà ricorso alla Corte suprema, il massimo tribunale nell’ordinamento USA e il primo interprete dello spirito delle leggi, e che è in gioco la sicurezza della nazione.
La Corte suprema, però, potrebbe non essere in grado di dirimere la questione. Finché il Senato non approverà la nomina del nono giudice, il conservatore Neil Gorsuch, l’organo resterà diviso a metà tra conservatori e progressisti. In caso di pareggio resterebbe in vigore la decisione presa ieri dalla Corte d’Appello, e il bando tanto criticato finirebbe definitivamente nel cassetto.
Il “Muslim ban” non è l’unica questione su cui ieri Trump ha dovuto rivedere la sua linea politica. Al telefono con il suo collega di Pechino, Xi Jinping, il presidente USA ha accettato di tornare alla tradizionale linea diplomatica di riconoscere “una sola Cina”.
La conversazione è stata “lunga ed estremamente cordiale”, come ha fatto sapere la Casa Bianca. Al riallineamento di Trump è seguito il plauso del governo cinese.
Poco dopo l’insediamento, il presidente USA aveva dichiarato di non sentirsi obbligato a seguire la linea, aprendo uno spiraglio diplomatico alle aspirazioni di Taiwan.
Era stato l’ultimo imbarazzo di una lunga serie. Trump si era scagliato più volte contro la Repubblica popolare anche in campagna elettorale, accusandola di concorrenza sleale e puntando il dito contro gli accordi commerciali internazionali che permettono alle imprese USA di spostare la produzione sull’altra sponda del Pacifico, sfruttando i costi minori e l’ospitalità del governo, ma lasciando senza lavoro i dipendenti americani. Poi però ha ritirato l’appoggio degli USA dal TPP, l’accordo con gli altri Stati della costa pacifica che sarebbe stato utile per fare fronte comune contro la politica commerciale aggressiva di Pechino. E ieri ha richiuso lo spiraglio che aveva lasciato a Taiwan, cosa che aveva detto di voler fare solo in cambio di ampie concessioni commerciali.
Washington riconosce il governo di Pechino come unico rappresentante della Cina dagli anni Settanta: prima era schierato dalla parte di Taiwan, ultimo residuo dello Stato travolto trent’anni prima dalla rivoluzione maoista. Il processo fu lungo e faticoso, orchestrato sotto le presidenze del repubblicano Richard Nixon e del democratico Jimmy Carter, mentre a Pechino dopo la morte di Mao era emersa la stella di Deng Xiaoping.
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