Quel che oggi viene chiamato con un certo tecnicismo Expo una volta era la ben più evocativa Esposizione Universale. Dimensione meravigliosa dove quanto di più nuovo, esotico, stravagante e alla moda fosse possibile desiderare. A Parigi e Londra per esempio l’esposizione universale fu un momento unico per il paese e per la città ospitante: un simbolo di progresso e in generale di futuro. Oggi non si respira questo clima né a Milano né in Italia. Abbiamo cercato di capirne il perché con il professor Cesare Casati, architetto e direttore di Arca, la prestigiosa rivista di Architettura.
Ma cominciamo dal tema: Nutrire il Pianeta, Energia per la vita.
Tra gli obbiettivi della manifestazione il confronto sulla sostenibilità; tra gli strumenti il lascito immateriale, come viene definito nella pagina ufficiale di Expo Milano 2015, di know how frutto di mesi di workshop, seminari e incontri sul tema della crescita responsabile e di un più giusta distribuzione delle materie a vantaggio del pianeta e di coloro che lo abitano. Il tutto declinato in una foresta di padiglioni dedicati agli stati partecipanti e cinque aree tematiche: Future Food District, Children Park, il Parco della biodiversità, Arts&food e Padiglione zero in cui viene presentata la storia alimentare dell’uomo e le prospettive per un futuro sostenibile.
Il packaging funziona. Ecco cosa ci dice un osservatore d’eccezione.
“Il Tema è interessante e c’è una grande partecipazione, ci sono però due errori”.
“Il primo urbanistico: date le dimensioni molto grandi ci sono problemi per le persone perché non c’è nessun sistema di trasporto meccanico, nessuna assistenza per gli invalidi e per gli anziani all’interno dell’Expo”.
“Il secondo problema è l’assenza completa della città: non ci si accorge che c’è l’expo, non è
è una città in festa, non c’è uno striscione né manifesti né indicazioni stradali”.
Di chi è la responsabilità?
Lapidario Casati attribuisce queste pecche “all’incompetenza dei neofiti”.
“Quest’Expo è stato organizzato da persone ricche di buona volontà ma che non avevano conoscenza di cosa fosse” un expo. “Mancano dei servizi essenziali, i tassisti per esempio non sanno dove sono gli ingressi, da un ingresso non si può andare ad un altro perché la navetta è all’esterno”.
Inoltre aggiunge con una battuta sottile ma che la dice lunga, “sembra che la gestione sia stata lasciata ai NoExpo”.
È un peccato. E Il padiglione italiano?
“È molto complicato, molto impegnativo, è un romanzo più che una novella”.
“Il vero problema è che quasi nessuno ha fatto sforzi futuristici, unica eccezione la cascata d’acqua del padiglione americano, il padiglione giapponese poetico e quello inglese come sempre tra i migliori”.
“Quello che delude completamente, aggiunge Casati, è Eataly di Oscar Farinetti, il cui padiglione è sempre vuoto”.
Quanto dice il prof. Casati ci conferma un’impressione poco edificante: all’Expo manca qualcosa, una certa emozione infantile da fiera, per rendere il problema più alla portata di un paese provinciale come l’Italia. Manca la magia e il mistero come se in pochi si aspettassero di trovare alcunché di meraviglioso come se il sorprendente fosse una categoria morta insieme alla Grande guerra per lasciar posto alla semplice miseria.Manca l’Italia dei borghi, dei campanili, il Paese che nella competizione e nell’autonomia trova sempre lo spunto per l’eccellenza.
“Ricordiamo -dice Casati- che l’expo di Parigi lasciò a memoria la Tour Eiffel, cosa verrà lasciato a Milano?
Il ricordo di un piatto riempito di cavallette?”
Flavio Balzano
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