Lo hanno dato per morto, politicamente, un’infinità di volte. Lo hanno preso in giro, sbeffeggiato, ridicolizzato. Ma le urne gli hanno dato ragione: per i prossimi quattro anni, Donald Trump sarà l’uomo più potente del mondo. Come è stato possibile non accorgersene prima?
I grandi assenti della campagna per le presidenziali USA 2016 sono stati i programmi. E non parliamo solo di Trump, l’orgoglioso dilettante che parla alla pancia dell’America, ma anche di Hillary Clinton, la politica navigata che lo ha sempre guardato dall’alto in basso senza però mai impensierirlo.
Farsi un’idea di cos’abbia in mente Trump obbliga a farsi largo nella mole di tutto quello che ha detto, scritto, twittato e lasciato altrimenti intendere. Apparentemente la carne al fuoco è tantissima, ma bisogna distinguere ciò che il neopresidente ha davvero intenzione di fare dalle sparate a effetto, arte in cui eccelle – almeno su questo non c’è dubbio – e che gli ha attirato la curiosità di addetti ai lavori e semplici elettori. Compito difficile; ma abbiamo già qualche indicazione.
Il primo atto della presidenza Trump è stato un discorso di ringraziamento, in cui il tycoon, in sostanza, ha seppellito l’ascia di guerra e promesso di governare in nome di tutti, superando le inimicizie e cercando gli accordi più che gli scontri. Tutto questo contiene anche un assist a Mosca e una stoccata alla Clinton, ma rivela una caratteristica tenuta accuratamente nascosta per mesi: il presidente non sa solo sbraitare contro donne, minoranze e potenze straniere, ma è anche in grado di mostrarsi misurato, composto, presidenziale.
La sua vittoria ha rivelato quanto il partito democratico abbia preso il polso della società americana. Le nette vittorie elettorali di Barack Obama, quattro e otto anni fa, avevano illuso i dem di aver conquistato i cuori gli elettori. Ma tolto di scena il carisma del primo attore è crollato tutto il teatro. La Clinton non aveva fatto i conti con il risentimento dei cittadini, che dalla ripresa dell’economia sono stati appena sfiorati. Perché se è vero che il PIL dopo la crisi del 2008 ha ricominciato a crescere, è anche innegabile che intanto gli americani sono stati colpiti dalla rinascita della questione razziale, dal terrorismo, dalla delocalizzazione della produzione industriale che ha spostato all’estero migliaia di posti di lavoro. Problemi tanto reali quanto distanti dal mondo delle alte sfere dem. E così la Clinton ha perso la Rust Belt, la fascia degli Stati deindustrializzati, delle fabbriche chiuse e dei quartieri fantasma. Ohio, Michigan, Wisconsin, Pennsylvania – i motori dell’industria pesante made in USA, tutti compatti a favore di Obama – sono rimasti esclusi dalla ripresa, e l’ex Segretario di Stato non ha saputo rispondere alle loro suppliche. Resta il dubbio che sia riuscita perfino a sentirle.
Trump, invece, le ha sapute cavalcare. Nel merito non c’è niente di nuovo rispetto a quello che si è visto in Europa negli ultimi anni: individuare un problema, ingigantirne la portata, individuare un capro espiatorio, insistere sui valori tradizionali, presentarsi come l’uomo della provvidenza. A fare la differenza semmai è il suo stile: sguaiato, rozzo, abrasivo, sfacciato e bugiardo, tanto da spingere alcuni commentatori a dichiarare l’inizio dell’“epoca della post-verità”.
Trump ha dato agli elettori quello di cui erano convinti di aver bisogno, e loro lo hanno ripagato. Il trionfo personale del miliardario, ironia della sorte, si è trascinato dietro quello del partito: lo stesso partito che durante le primarie aveva provato di tutto, invano, per frenare la sua corsa. E oggi, grazie a lui, si ritrova solo al comando. Presidenza, Camera dei Rappresentanti e Senato sono tutti in mano repubblicana, una circostanza che negli USA non si vedeva dal 1928. Almeno per i prossimi due anni, quindi, Trump potrà contare sull’appoggio dei due rami del Congresso, un lusso che il suo predecessore Obama ha sperimentato solo per due anni degli otto che ha passato alla Casa Bianca.
Per tutta la campagna elettorale, Trump ha ripetuto spesso lo slogan secondo cui il sogno americano è morto. Dobbiamo dissociarci dal coro di voci che gli danno ragione. Non è mai stato vero: l’America è quel bizzarro paese di trecento milioni di abitanti dove chiunque può diventare presidente. Perfino uno come Donald Trump.
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