Stasera alle 21, ora italiana, nel tempio del calcio per eccellenza, il Maracanà di Rio de Janeiro, andrà in scena l’atto conclusivo della Coppa del Mondo. La partita più attesa che ogni giocatore, ad ogni latitudine, sogna, sin da ragazzino, di poter giocare. Germania-Argentina, ossia coloro che hanno inferto l’umiliazione più cocente nella storia del “fùtebol” ai padroni di casa contro i rivali di una vita. Un incubo per ogni brasiliano. Una splendida realtà per i tifosi delle due nazionali che, più di ogni altra ed è giusto riconoscerlo, hanno meritato di arrivare a giocarsi il titolo.
Due squadre, due popoli, due concezioni della vita che più diverse non potrebbero essere. Da una parte, un’organizzazione di gioco ferrea, una manovra armoniosa e corale; dall’altra apparente improvvisazione, ritmi lenti e attesa della luce dei meravigliosi solisti là davanti. Da una parte, il collettivo, quasi del tutto privo di punti deboli e dove si fa fatica a rinvenire una star che si distacchi dal contesto (anche se il Mueller visto sin qui…); dall’altra il più forte giocatore del pianeta da almeno un quinquennio. Da un lato l’attacco più prolifico della manifestazione (17 reti, ma quanto pesa la vendemmia del Mineirao…); dall’altro una squadra dipinta come una compagine di gregari al servizio delle stelle in attacco e fragile dietro (impressione avallata dalle prime tre uscite molto incerte con Bosnia, a segno, Iran, rimasto all’asciutto solo per un rigore ciclopico non fischiato agli asiatici, e Nigeria, ben due volte in rete), con un portiere che nessuno avrebbe voluto tra i propri pali, ma che, dagli ottavi in poi (ossia dall’inizio della fase ad eliminazione diretta) non ha subito uno straccio di rete. Da una parte un calcio propositivo, che cerca d’imporsi all’avversario, sin quasi a prescinderne; dall’altra una formazione che sembra giocare “sull’avversario”, nel tentativo, sin qui sempre riuscito, di imbrigliarne fraseggio e idee per anestetizzarlo e inaridirne le fonti salvo poi colpire come un serpente a sonagli. Da un lato la potenza economica egemone nel Vecchio Continente; dall’altro un paese, l’Argentina che vede da vicino l’incubo di replicare il “default” del 2001. Persino un “derby vaticano” tra il Papa attuale e colui che l’ha preceduto sul soglio di Pietro.
Una partita che la logica ( e i bookmakers) vorrebbe appannaggio della corazzata teutonica, ma che molti (anche gli stessi tedeschi, lo si intuisce dalle pieghe delle dichiarazioni della vigilia) pensano sarà, invece, una sfida assolutamente equilibrata.
Che la Germania sia la più forte tra le due e anche la più forte tra tutte le compagini viste all’opera in Brasile è fuor di dubbio, ma l’Argentina si è rivelata maestra nel far giocare male chiunque abbia affrontato. E non va dimenticato che i tedeschi hanno dominato contro squadre come Portogallo e Brasile propense al palleggio e al confronto a viso aperto, mentre è andata in palese difficoltà contro squadre più chiuse e che davano poco ritmo, come l’Algeria (tacendo di Ghana e Usa). C’è poi la tradizione che vuole sempre una nazionale sudamericana trionfatrice in un Mondiale organizzato nel Nuovo Continente.
Ma due mondi anche così vicini: quanto a pragmatismo e ad essenzialità, gli argentini non sono affatto da meno rispetto ai colleghi della Nationalmannschaft. Tanto da meritarsi, da sempre, il soprannome di “tedeschi del Sudamerica” e da esser vissuti come la nemesi naturale del “grande vicino”, il Brasile. Che oggi tiferà compatto per gli uomini di Loew. Vantaggio sugli spalti appannaggio degli europei, dunque? Non sembrano pensarla così i quasi 150.000 argentini venuti con ogni mezzo (persino uno in…vespa) da Baires e dintorni. Rio è colorata di albiceleste. Anche se la Fifa ha destinato salomonicamente un numero pari di biglietti alle due federazioni.
Per Messi l’opportunità di coronare con il titolo mondiale una carriera fin qui stellare in maglia blaugrana, molto meno in nazionale dove non ha mai vinto nulla. Un tassello che, se messo a posto, lo avvicinerebbe ulteriormente a Diego Maradona, in una sorta di rincorsa eterna quanto quasi impossibile a colui che, per fantasia e anche carisma, gli sarà sempre davanti. Pur essendo Leo un cecchino superiore a “El Diego” e vantando una bacheca decisamente più pingue.Inoltre, Diego era il principio e la fine, il sole e la luna per la”sua” Argentina, campione nel 1986 e finalista nel 1990. Due squadre, peraltro, complessivamente, affatto superiori all’Albiceleste attuale. Messi, invece, è l’indiscusso leader tecnico di questa squadra, ma quello carismatico è, senza dubbio, Javier Mascherano.”Jefecito” non per caso (lui, e non Lionel, è andato a infondere robuste dosi di coraggio e fiducia a Romero nella lotteria dei rigori con l’Olanda, mica Leo). L’età della “pulce” (27 anni compiuti il 24 giugno) è quella giusta. Se non ora quando, verrebbe da dire. Anche se il suo Mondiale, fin qui, è stato connotato da luci accecanti (le reti a Bosnia, Iran e Nigeria, l’assist a Di Marìa con la Svizzera) ma anche molte più ombre di quanto non fosse lecito pensare. Opaco nei quarti con il Belgio, letteralmente non pervenuto con l’Olanda in semifinale. Un calo coinciso, e potrebbe non essere una coincidenza, con l’infortunio del suo partner preferito, Angel Di Marìa. Lo staff medico argentino ha tentato l’impossibile per recuperarlo, dai fattori di ricrescita alla camera iperbarica. Sabella scioglierà la riserva circa un impiego della stella del Real solo all’ultimo, ma, visto che si tratta di un giocatore che fa degli scatti ripetuti , dei cambi di direzione e delle accelerazioni brucianti il suo punto di forza, è difficile che venga impiegato se non quantomeno vicino al 100% della condizione. Ipotesi più che remota. Un Di Marìa al meglio, avrebbe fatto addirittura pendere la bilancia dalla parte dei sudamericani. Quindi, una quasi certa assenza che peserà come un macigno.
In casa tedesca, per Mueller potrebbe essere il Mondiale della definitiva consacrazione e potrebbe diventare persino il primo giocatore della storia dei Mondiali a vincere per due edizioni, peraltro consecutive, il titolo di capocannoniere. Per l’intero blocco Bayern sarebbe il naturale coronamento di un ciclo partito da lontano. Con la fattiva collaborazione di un “maestro esterno”, Pep Guardiola: evidenti le tracce del suo tiki taken anche tra i bianchi. Un giusto riconoscimento anche per il nutrito contingente fornito dal Borussia Dortmund, non a caso protagonista con i bavaresi della prima finale di Champions tutta tedesca nella storia della manifestazione. Poco più di dodici mesi fa. E solo il Real è riuscito, in una serata perfetta, a fermare il percorso netto del Bayern di quest’anno. E Di Marìa fu tra i protagonisti assoluti del clamoroso sacco dell’Allianz. Non a caso una squadra, il Real, il cui tecnico, Carlo Ancelotti, decise di “giocare sull’avversario”, fino a rendere del tutto sterile e accademico il possesso palla del Bayern. E’ quello che ha fatto fin qui e che tenterà di fare ancora anche Alejandro Sabella. Per la Germania, considerata giustamente specialista di grandi corse a tappe data l’incredibile regolarità di risultati e prestazioni, l’occasione di sfatare il tabù che li vuole “perdenti di successo” nelle volate in singole competizioni brevi. Per alcuni, come Miro Klose, l’unico superstite della non trascendentale Nationalmannschaft che pure si arrampicò sino alla finale poi persa con il Brasile di Ronaldo in Giappone nel 2002, l’opportunità, dopo aver superato lo stesso “fenomeno” brasiliano in vetta ai cannonieri di tutti i tempi del Mondiale, di prendersi una gustosa rivincita all’ultimo tuffo. Per il calcio tedesco tutto, la possibilità di concludere nel migliore dei modi un ciclo di rinnovamento che, dopo le secche seguite alla generazione di fenomeni laureatasi campione del mondo a Roma nel ’90 (guarda caso, proprio contro l’Argentina), era dovuto ripartire da zero con l’Europeo Under21 del 2009 (Neuer, Hoewedes, Boateng, Khedira, Oezil, Hummels tra i campioncini d’Europa di allora), spezzando quell’incredibile teoria di piazzamenti che non conosce soluzione di continuità dall’Europeo d’Inghilterra del 1996.
Un pronostico, quindi? Difficilmente la Germania riuscirà a smarcarsi dalla “melassa” argentina. Sarà una gara non bella, spezzettata da molti falli, nervosa, molto bloccata. In questi casi a decidere è spesso l’episodio. Di solito favorevole a chi può vantare il maggior numero di migliori individualità in grado di decidere un match con una giocata estemporanea. L’Argentina ne ha di più. Ma se si dovesse arrivare ai rigori, tutto potrebbe accadere e, vuoi per Neuer vuoi per la proverbiale freddezza teutonica, allora lì la Germania avrebbe un pizzico di chances in più.
Per noi italiani, la soddisfazione di avere, per la terza volta nella storia delle finali (dopo Gonella che arbitrò Argentina-Olanda nel ’78 e Collina che diresse Brasile-Germania nel 2002), un nostro fischietto a metter ordine in campo: Nicola Rizzoli. Magra, ma pur sempre una consolazione.
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