Le piante si stanno estinguendo, ad un ritmo che è 500 volte superiore al normale. Ad essere più minacciate sono quelle che vivono esclusivamente nelle isole o nelle zone tropicali, e gli alberi dell’Amazzonia.
Secondo uno studio, pubblicato sulla rivista specializzata Nature Ecology and Evolution, e realizzato dai Giardini botanici reali di Kew (Inghilterra) e dall’Università di Stoccolma, negli ultimi due secoli e mezzo si sono estinte 571 specie di piante, oltre il doppio delle specie di mammiferi, uccelli e anfibi che sono scomparse dalla faccia della Terra.
A confermare questa tendenza il rapporto stilato dalla ‘Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e gli ecosistemi’, l’organismo dell’Onu che si occupa di queste tematiche (IPBES). La relazione, approvata la scorsa settimana a Parigi, afferma che “la natura declina globalmente ad un ritmo senza precedenti nella storia umana e il tasso di estinzione delle specie accelera causando effetti gravissimi sulla popolazione del mondo intero”. Sono valutazioni che, secondo l’organismo, “presentano un panorama inquietante”, perché mostrano come il genere umano sia “in procinto di erodere i fondamenti stessi della sua economia, dei suoi mezzi di sussistenza, di sicurezza alimentare, salute e qualità della vita”. Gli obiettivi per la biodiversità stabiliti alla conferenza di Aichi e l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile non saranno raggiunti sulla base delle traiettorie attuali.
Lo studio ha infatti valutato i cambiamenti avvenuti negli ultimi 50 anni, fornendo un quadro completo delle relazioni tra sviluppo economico ed impatto sulla natura, cercando al contempo di tracciare scenari possibili per i decenni a venire. Ad elaborarlo, negli ultimi tre anni, sono stati chiamati 145 scienziati di 50 diversi paesi, in collaborazione con altri 310 esperti. Gli studiosi hanno preso in esame 15 mila tra dati scientifici, fonti governative, saperi locali; una messe di informazioni che, a detta dei curatori, è la prima mai raccolta su tale scala.
Ecco alcuni dei punti critici emersi. Tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati significativamente modificati dalle azioni umane. In media queste tendenze sono state meno severe o evitate nelle aree gestite dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali. Più di un terzo della superficie terrestre e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono ora destinate alla produzione di colture o bestiame. Il valore della produzione agricola è aumentato di circa il 300% dal 1970, il raccolto di legname grezzo è aumentato del 45% e circa 60 miliardi di tonnellate di risorse rinnovabili e non rinnovabili sono ora estratte a livello globale ogni anno, valore quasi raddoppiato dal 1980. Il degrado del suolo, causato dall’intenso sfruttamento, ha ridotto la produttività del 23% della superficie globale. Fino a 577 miliardi di dollari in colture globali annuali sono a rischio di perdita degli impollinatori. 100-300 milioni di persone sono a maggior rischio di inondazioni e uragani a causa della perdita di habitat costieri e del loro effetto di protezione naturale. Nel 2015, il 33% del pescato marino veniva raccolto a livelli insostenibili; Il 60% è stato pescato in modo massimamente sostenibile, con appena il 7% di raccolta a livello inferiore rispetto a quello che può essere pescato in modo sostenibile. Le aree urbane sono più che raddoppiate dal 1992. L’inquinamento plastico è aumentato di dieci volte dal 1980, 300-400 milioni di tonnellate di metalli pesanti, solventi, fanghi tossici e altri rifiuti da impianti industriali sono gettati ogni anno nelle acque del mondo, e i fertilizzanti che entrano negli ecosistemi costieri hanno prodotto più di 400 “zone morte” oceaniche , per un totale di oltre 245.000 km2, un’area che complessivamente è superiore a quella del Regno Unito. Se non si interviene facendo evolvere l’attuale sistema finanziario ed economico per dar vita ad un’economia globale sostenibile, allontanandosi dall’attuale paradigma limitato della crescita economica, le tendenze negative in natura continueranno fino al 2050 e oltre in tutti gli scenari politici esaminati nel rapporto.
Annunciata l’apocalisse che ci aspetta, l’IPBES apre però alla speranza: “Il rapporto ci dice che non è troppo tardi per agire, ma solo se cominciamo a farlo da subito e a tutti i livelli”. Il nostro ecosistema, grazie ai ‘cambiamenti trasformativi’, può ancora essere salvato. Però serve impegnarsi, politici e popolazione, in una serie di mutamenti sostanziali del sistema che investano fattori tecnologici, economici e sociali. Perché la minaccia al benessere umano è veramente globale e generazionale.
Ma per far questo, ha sottolineato la segretaria esecutiva dell’IPBES, dott.ssa Anne Larigauderie serve l’intervento dei governanti. “IPBES diffonde la scienza autorevole e le conoscenze globali, ma le considerazioni le devono trarre quelli che prendono le decisioni finali”.
Elisa Rocca
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