“Corri veloce, eh? Sembri Mennea!”. Era un’esclamazione tipica che accompagnava negli anni ’70 e ’80 tutti coloro che riuscivano a prodursi in grandi volate, su una pista in tartan, sull’asfalto, in palestra, su un campo di calcio. Non importava dove e in quale contesto. Pietro Mennea era per tutti noi sinonimo di velocità. E di riscatto. Quasi rabbioso. Di un’Italia che, nell’atletica dello sprint era rimasta ancorata al mito di Berruti. Di un’Europa occidentale e bianca che tramite il barlettano poteva misurarsi alla pari con le frecce nere made in USA o con i “robot” creati in laboratorio oltre la cortina di ferro (il muro c’era ancora e il doping di Stato pure). Ma anche di un’Italia, quella meridionale, bisognosa di avere un rappresentante in grado di sfatare l’assunto che fosse impossibile, data la cronica carenza di strutture, per un ragazzo del Sud affermarsi nello sport ad alto livello. Nasce così il mito della “freccia del Sud”. Quasi un marchio di fabbrica. Un soprannome che, spesso, della vita sportiva di un atleta racconta molto. Tommie Smith, cui Pietro sottrasse il primato mondiale sui 200 mt., era “Jet”; Carl Lewis che dominò la scena dello sprint dopo l’era Mennea, era “il figlio del vento”. Soprannomi impegnativi, quasi roboanti. Raccontavano di atleti predestinati al successo, con fisici scultorei, longilinei e con gambe che sembravano ricavate dall’ebano. Ecco, Pietro Mennea non era nulla di tutto ciò. Anche sgraziato, persino bruttino nel vederlo correre. Di lui non colpivano né il fisico, né la potenza pura, né l’eleganza della postura. Lui trasudava volontà, feroce determinazione. Quasi rabbia. Mostrata al mondo con l’indice alzato dopo aver tagliato il traguardo per primo come a Mosca nell’80. L’indice alzato quasi a voler dire agli scettici: “Vedete? Non ci credevate ma ce l’ho fatta!”, un gesto che ricorda la statua di Ettore Fieramosca che fa bella mostra di se nella natia Barletta. Il suo sforzo in pista appariva titanico. Le sue vittorie avevano sempre un che di epico. Spesso sembrava non potercela fare ma era, appunto, solo un’impressione. Mennea veloce lo era per davvero ma pagava lo scotto di partenze lente e raggiungeva la velocità di punta solo una volta lanciato. Ma quando il motore entrava a pieno regime erano dolori per tutti. Ciononostante, non era considerato un atleta naturale e lui stesso, sempre fedele al suo motto “soffri, ma sogni”, ne era consapevole, tanto da chiedere al suo corpo e alla sua volontà sforzi sovrumani in interminabili sedute di allenamento prima con Mascolo a Barletta, poi con il fido Carlo Vittori nel centro federale di Formia. Una dedizione quasi ascetica. Una vita monastica. La crisi di rigetto che ebbe Mennea nel 1981 quando, appena 28enne, annunciò, il 5 marzo, il suo primo ritiro dalle competizioni colse di sorpresa tutti, meno quelli che lo conoscevano molto da vicino. E non mancarono velenose illazioni circa il desiderio di sfruttare commercialmente il suo acquisito “status” di star per lucrare in ricche esibizioni. Non accadde nulla di tutto ciò, tanto che Mennea, nel frattempo dedicatosi agli studi, tornò a gareggiare già nella primavera dell’anno seguente. Ma anche avesse voluto monetizzare il suo talento non avrebbe commesso alcun delitto di lesa maestà. Tanto per far capire come, all’epoca, tra la stampa specializzata e i dirigenti federali, ancora prosperava l’ipocrisia dello sport dilettantistico a tutti i costi. Tanto gli atleti incassavano comunque lauti ingaggi dagli organizzatori dei meeting. In verità, il “giocattolo Mennea” funzionava sin troppo bene e negli ambienti federali si temeva di perderne l’esclusiva. Pietro Mennea venne dipinto come un avido irriconoscente. Come detto, però, il problema non si pose. Il che non toglie che il barlettano fosse un attento amministratore dei propri interessi. Ma questo, oltre ad essere legittimo, è un indubbio pregio. Poi, pur proseguendo la carriera agonistica sino ai Giochi di Seoul del 1988 ( dove fu anche il portabandiera), Mennea, sempre animo inquieto, riversò altrettanta determinazione anche sulle “sudate carte”. Conseguendo quattro lauree (oltre ai titoli di Dottore Commercialista e di Avvocato), appena una in meno delle edizioni dei Giochi cui prese parte. Senza dimenticare anche l’impegno politico come eurodeputato e l’esperienza da dirigente nel calcio, alla Salernitana. Un personaggio a tutto tondo, quindi, e non è un caso che, oltre ai doverosi omaggi che gli sono stati tributati in queste ore di cordoglio dai massimi esponenti delle istituzioni sportive e dai colleghi (“Con lui se ne è andata metà di me”, la toccante testimonianza di Sara Simeoni), anche Giorgio Napolitano e Mario Monti abbiano voluto ricordarne la figura. Un’icona per raccontare la quale occorrerebbe un libro. Lui, in compenso, ne aveva scritti ben 12!
D.P.
Napoletano, 44 anni, giornalista professionista con 17 anni di esperienza sia come giornalista che come consulente in comunicazione. Ha scritto di politica ed economia, sia nazionale che locale per diversi giornali napoletani. Da ultimo da direttore responsabile, ha fatto nascere una nuova televcisione locale in Calabria. Come esperto, ha seguito la comunicazione di aziende, consorzi, enti no profit e politici. Da sempre accanito utilizzatore di computer, da anni si interessa di internet e da tempo ne ha intuito le immense potenzialità proprio per l'editoria e l'informazione.
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