La notizia che il governo abbia trovato l’accordo per eliminare il finanziamento pubblico dei partiti, il pesante fardello di cui da decenni si fanno carico le casse dello Stato e che gli italiani, senza distinzione di fede politica, considerato il più odioso dei privilegi della Casta, va salutata con favore ma anche con diffidenza visto che si tratta di un disegno di legge sul quale, in sede parlamentare, potrebbero venire fuori sorprese sgradite.
Sono tante infatti le circostanze sulle quali, in futuro, soprattutto chi della lotta ai privilegi della politica ne ha fatto un obiettivo strategico, dovrà vigilare. E questo perché intanto c’è da dire che i partiti non rinunceranno facilmente a questa rendita di posizione che di fatto li tiene in piedi e li allatta amorevolmente. Seconda considerazione: avranno i partiti la forza di rinunciare a quello che risulta essere il più forte dei collanti che lega i partiti allo Stato e la politica alle istituzioni? In altre parole, esiste davvero una leva etica, culturale e morale che possa far dire ai partiti: “Signori, da oggi si cambia. Abbiamo deciso di rinunciare ai privilegi e all’esercizio di quei poteri che rendono la vita non solo immeritatamente arrogante, ma anche più dolce e vantaggiosa”?
Indipendentemente, aggiungiamo noi, da quello che succedere fuori della porta del Palazzo, dove il cittadino onesto arranca e perde potere di acquisto, speranza e dignità? La storia dei tagli e delle riduzioni di stipendi, prebende e benefit che hanno preceduto la decisione odierna di tagliare o far scomparire addirittura il finanziamento pubblico, non lascia ben sperare. Polemiche, contrasti e accuse al limite del ridicolo che ultimamente hanno accompagnato qualunque timida iniziativa di singoli gruppi o partiti che chiedevano di intervenire su queste ignobili disparità di trattamento tra cittadini e abitanti del Palazzo, non ha avuto grande fortuna. Quando si parla di rinunciare a qualcosa ed in particolare ai soldi, tra i politici si diffonde il panico. Ci si chiude a riccio insensibili all’esigenza legittima di mettere ordine tra conti che non tornano più perché taroccati, ingiusti, indecenti, se visti nell’ottica dell’uomo della strada che lotta contro una crisi economica e sociale che non lesina rinunce, disoccupazione, problemi, drammi.
E cosa si scopre quando un governo, nel pieno delle sue funzioni e nel rispetto dell’impegno preso con gli elettori e con il Capo dello Stato, prova a fare qualcosa? E’ rissa per chi deve lasciare i doppi o tripli incarichi. Si urla quando qualcuno ti dice che c’è da rinunciare alla diaria o ad alcune prebende che nessuna legge dello Stato riconosce ai semplici cittadini. Apriti cielo se poi nell’agenda dell’Esecutivo entrano scelte come lo scioglimento di enti inutili, l’azzeramento e dimezzamento delle province, i tagli alle spese improduttive della pubblica amministrazione.
Per la conversione definitiva di questo ddl c’è tempo, però siamo curiosi di capire e vedere come il premier Letta riuscirà nel suo intento di definire e adottare “procedure rigorose in materia di trasparenza, di statuti e bilanci dei partiti”. Così come siamo curiosi di capire come il presidente del Consiglio riuscirà ad ottenere “la semplificazione delle procedure per le erogazioni liberali dei privati in favore dei partiti, ferma l’esigenza di assicurare la tracciabilità e l’identificabilità delle contribuzioni”. Un compito da titani.
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