Cesare Prandelli e Giancarlo Abete
La prematura e inattesa eliminazione dell’Italia nella prima fase del Mondiale brasiliano (è la seconda volta consecutiva che accade e per trovare un precedente altrettanto disastroso bisogna risalire alle edizioni di Cile ’62, quella dell’arbitro Aston, e Inghilterra ’66, quella della “Corea”) ha scatenato un autentico tsunami nel mondo del nostro calcio: il Ct Cesare Prandelli e il presidente della Figc, Giancarlo Abete, hanno annunciato le proprie dimissioni; Demetrio Albertini, vicepresidente della Figc e capodelegazione, aveva annunciato le proprie un mesetto fa; Arrigo Sacchi ha fatto più volte capire di esser stanco e presto rinuncerà all’incarico di supervisore delle nazionali giovanili (possibile un suo ritorno, in analogo ruolo, al Milan); Andrea Pirlo ha dato l’addio alla maglia azzurra; Gigi Buffon non l’ha ancora annunciato ufficialmente ma, vista la carta d’identità (è del 28 gennaio 1978, ndr), non sorprenderebbe una decisione in tal senso.
Prandelli e Abete in un momento felice
Insomma, il dopopartita di Italia-Uruguay somiglia molto a una sorta di notte da fine impero per il nostro calcio. Dai contorni molto velenosi, peraltro.
Nell’intervista rilasciata ai microfoni Rai subito dopo il fischio finale, Prandelli aveva speso parole di fuoco per l’arbitro, il messicano Rodrìguez, per poi mettere sul banco degli imputati il calendario, reo di averci riservato la prima partita nel “forno” amazzonico di Manaus e poi due gare di fila alle 13 locali, ma alla domanda su un’ipotesi di dimissioni, aveva glissato con un sibillino “adesso ci rifletteremo“. Un’oretta dopo, la riflessione aveva condotto all’esito: dimissioni.
“Ho parlato con Abete dopo la partita, giusto prendersi le responsabilità del progetto tecnico: ho deciso di rassegnare le dimissioni irrevocabili“, l’annuncio del Ct in una conferenza stampa tenuta congiuntamente al presidente federale, Giancarlo Abete. “Nel momento in cui ho rinnovato il mio contratto è cambiato qualcosa — la premessa di Prandelli—. Non so perché, ma siamo stati considerati come un partito politico, quando sappiamo che la federazione non prende esclusivamente i soldi dallo Stato. Io non rubo i soldi dei contribuenti e pago regolarmente le tasse. Ci siamo sentiti aggrediti, non ho mai rubato i soldi. Se sbaglio tecnicamente, invece, è un discorso diverso e mi prendo tutte le responsabilità di quanto è successo qui”. Chiaro il riferimento al polverone sollevato da alcuni organi d’informazione. In particolare, il quotidiano Libero aveva sottolineato come lo stipendio del mister – 1,6 milioni l’anno – fosse una cifra stabilita in un rinnovo “a scatola chiusa”, lo scorso marzo, ben prima dell’inizio del mondiale e proprio nei giorni in cui infuriava la discussione sulla “spending review” voluta da Matteo Renzi sugli stipendi dei manager pubblici.
Quindi, Prandelli entra nel merito della propria decisione: “Mi dimetto perché non è stato un progetto tecnico vincente. Il progetto tecnico è responsabilità mia, così come l’organizzazione e la preparazione, se non abbiamo avuto occasioni da gol è perché abbiamo dei limiti tecnici che non sono strutturali ma di qualità, la responsabilità è mia sulle decisioni, sui cambi, su tutto”. Ma se anche le scelte organizzative sono ascrivibili al tecnico, allora non si capisce perchè si sia deciso di andare in Brasile così a ridosso del Mondiale con tanto di sauna utilizzata a Coverciano per simulare le condizioni che i giocatori avrebbero trovato in Sudamerica. Partire prima, no? E soprattutto perchè scegliere come sede del ritiro Mangaratiba, vicino Rio, dove temperatura ed umidità sono molto diverse da quelle dell’Amazzonia (Manaus) e del Nord Est del Brasile (Recife e Natal)?
L’ormai ex Ct si sofferma,poi, su quello che reputa esser stato il momento della svolta in negativo della spedizione brasiliana: “Abbiamo perso il Mondiale nella partita con la Costa Rica. In quella gara dovevamo fare di più, ne avevamo le possibilità. Lì non ha funzionato il mio progetto tecnico nonostante i 4 attaccanti messi dentro. A certi livelli è importante non solo la tecnica ma anche la fisicità“. Ma che la condizione atletica fosse un fattore decisivo era cosa nota a tutti. A Prandelli in primis, vista anche l’esperienza in Confederations di 12 mesi fa, peraltro sbandierata con grande orgoglio dopo l’esordio con l’Inghilterra i cui giocatori, a differenza dei nostri, avevano terminato la partita sulle ginocchia ed in preda ai crampi. Noi siamo semplicemente scoppiati una partita dopo.
La preparazione atletica, dunque. Sull’argomento, Prandelli si è espresso così: “La preparazione? Sapevamo che era difficile trovare la condizione che ci potesse dare la freschezza che hanno queste squadre. L’Uruguay ha subito il nostro palleggio ma quando ripartivano lo facevano con una velocità impressionante. Il nostro calcio non produce questi giocatori e devi inventarti qualcosa di diverso. La riflessione sul calcio italiano è ampia. Il progetto tecnico ha funzionato con l’Inghilterra ma non con le altre squadre“. E, francamente, viene il sospetto di aver assistito ad un’altra partita perchè di veloce nel gioco dell’Uruguay non c’è stato nulla, se non qualche isolata scorribanda (poche, invero) di Cavani, l’unico elemento dinamico della Celeste.
Non è mancata una stoccata anche a SuperMario: “Balotelli? Fa parte del progetto tecnico“. Quindi, un fallimento.
Massimiliano Allegri, Luciano Spalletti, Roberto Mancini
Per la successione al tecnico di Orzinuovi, si fanno i nomi di Massimiliano Allegri, Roberto Mancini e Luciano Spalletti. Visti gli ingaggi faraonici cui sono abituati gli ultimi due, in pole dovrebbe essere l’ex allenatore del Milan.
Giancarlo Abete, dal canto suo, è stato meno “torrenziale”: “Tra venerdì e lunedì convocherò il Consiglio federale: vi parteciperò rassegnando le mie dimissioni irrevocabili. Spero che Prandelli ci ripensi: è stato fatto il massimo rispetto a quello che oggi è il nostro calcio. Non vanno sottovalutati il secondo posto all’Europeo e il terzo alla Confederations. Era una decisione che avevo già preso prima dei Mondiali, a prescindere dal risultato. Manterrò i miei incarichi in Uefa e Coni, ma voglio liberare le federazioni dalle critiche che mi vengono rivolte in quanto vertice federale”. Nulla da dire sul bellissimo Europeo di due anni fa, ma annoverare l’anonimo terzo posto in Confederations Cup come risultato di prestigio è, oggettivamente, una notevole forzatura: un torneo di secondo piano, con solo otto squadre ai nastri di partenza, tra cui la folkoristica nazionale di Tahiti, concluso con le vittorie di misura sul Messico e sul Giappone (quest’ultima, assolutamente immeritata), una sconfitta per 2-4 con il Brasile (punteggio bugiardo, è giusto riconoscerlo, ma un deciso passo indietro rispetto al 2-2 in amichevole di pochi mesi prima) e un pareggio nell’inutile finalina per il 3° posto proprio con l’Uruguay (si prevalse solo ai rigori). Insomma, un torneo senza infamia e senza lode. Il minimo sindacale.
Gianluigi Buffon
In questa serata da tutti contro tutti, anche i “senatori” del gruppo azzurro hanno voluto dire la loro. Gianluigi Buffon è stato piuttosto netto: “Si pretende la massima serenità di giudizio e correttezza da parte di tutti. Si sente dire che c’è bisogno di ricambi, che Pirlo, Buffon, Barzagli, De Rossi sono vecchi ma poi quando c’è da tirare la carretta sono sempre questi in prima fila. Andrebbero rispettati di più loro per quello che hanno fatto e quello che rappresentano ancora adesso. Quando si va in campo si deve fare e non basta più vorrebbe fare o farà… “. Ancor più esplicito, se possibile, Daniele De Rossi: “Dobbiamo dimenticare in fretta. Anzi mi correggo: dobbiamo tenere bene in mente tutto e ripartire dagli uomini veri. Non dalle figurine o dai personaggi: questi non servono alla Nazionale. Sottoscrivo ogni virgola del concetto espresso da Gigi Buffon. Può farci bene ragionare su quanto espresso dal capitano, da uno dei portieri più forti di tutti i tempi. Questo non perché sono fra quei quattro veterani che Gigi ha ‘salvato’ ma perché é vero che noi incarniamo lo spirito giusto ed é altrettanto vero che noi ci mettiamo sempre la faccia. Chi non si sente di profondere lo stesso impegno, chi non ha la stessa passione rimanga a casa . Dobbiamo ripartire dagli uomini veri, quelli che ti fanno vincere queste partite. La nazionale non ha bisogno di chi ragiona individualmente. Non servono personaggi o figurine“. Un’evidente presa di posizione nei confronti dei giovani. Molti addetti ai lavori ( e non solo…) però vedono in queste affermazioni molto pesanti un bersaglio specifico: Mario Balotelli non lo nomina esplicitamente nessuno ma sembra di avvertire nitidamente un certo fischiar di orecchie…
Daniele De Rossi
A margine delle dichiarazioni pubbliche c’è da registrare il discorso d’addio di Andrea Pirlo. Il centrocampista juventino, però, era stato sorteggiato per l’antidoping e i compagni di squadra lo hanno aspettato come si conviene ad un generale che si congeda dalle sue truppe. Tutti hanno atteso Pirlo. Tranne uno: Balotelli era già salito sul pullman. In silenzio. Un uomo solo e mai al comando. Doveva essere il suo Mondiale. Si è fermato dopo il primo ostacolo. Doveva essere la sua squadra che Prandelli aveva disegnato attorno a lui, dandogli fiducia quando buona parte dei media reclamava al suo posto Ciro Immobile. Ma la figurina di SuperMario non l’ha voluta nessuno.
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