Si è celebrata in tutto il mondo ieri, 5 giugno, la 47° edizione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, promossa dalle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche più cogenti in tema di salvaguardia ambientale: perdita della biodiversità, cambiamenti climatici e crescente inquinamento.
L’ONU nelle parole del suo segretario generale Antonio Guterres, ha sottolineato gli effetti collaterali sulla nostra salute se non agiamo in fretta: “Il degrado degli ecosistemi sta già mettendo a rischio il benessere del 40% dell’umanità. Per fortuna la Terra è resiliente: ma ha bisogno del nostro aiuto”.
In poco più di quarantacinque anni abbiamo anticipato di due mesi a livello globale la soglia in cui consumiamo le risorse che il pianeta è in grado di produrre per quell’anno e iniziamo a corrodere quelle del futuro. La data soglia (l’overshoot day come è definita internazionalmente) è infatti scesa dal 27 novembre del 1974 al 29 luglio del 2021. E in un paese sviluppato, e dai consumi elevati come il nostro, la soglia è stata superata addirittura il 13 maggio. Ciò significa che il mantenimento del nostro benessere si fonda, per più della metà dell’anno, sul consumo delle risorse che dovrebbero rimanere a disposizione delle generazioni future. È davvero impensabile continuare in questo modo.
Le Nazioni Unite, però, alle campagne catastrofiste preferiscono l’azione e stimolate dall’energia e dalla creatività della nuova giovanissima generazione di attivisti per il clima, i ragazzi che sono scesi nelle piazze al fianco di Greta per scuotere l’opinione comune e sensibilizzare le classi dirigenti sui temi ambientali, hanno deciso di sostenere questi giovani lanciando proprio nella giornata di ieri il decennio del “ripristino degli ecosistemi”, da attuare entro il 2030, accompagnando il percorso con lo slogan #GenerationRestoration.
Dare nuova vita agli ecosistemi danneggiati significa non soltanto riportarli a una condizione originaria, ma lavorare per impostare una diversa interazione tra uomo e natura. E per centrare l’obiettivo questa azione deve necessariamente avere un respiro globale. L’ONU invita pertanto governi, imprese, società civile, ma anche i privati cittadini a fare la propria parte: dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra di quasi la metà entro il 2030 per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C ed evitare i suoi impatti più pericolosi. Ma non possiamo raggiungere questo obiettivo senza un ambizioso progetto di ripristino degli ecosistemi e la de-carbonizzazione delle economie nazionali.
Secondo l’ONU infatti, “fermando e invertendo il degrado delle terre e degli oceani, possiamo prevenire la perdita di 1 milione di specie in pericolo. Gli scienziati dicono che ripristinare anche solo il 15% degli ecosistemi nelle aree prioritarie può ridurre l’estinzione del 60% grazie al miglioramento degli habitat”.
Il restauro degli ecosistemi non è soltanto una disinteressata azione ambientalista, è la chiave per la prosperità e il benessere delle persone: maggiore è la vitalità degli ecosistemi maggiori sono i benefici in termini di cibo e acqua, in salute e in sicurezza, di cui la nostra popolazione in crescita ha bisogno oggi e avrà sempre più bisogno in futuro. Secondo le stime dell’ONU quest’opera “monumentale”, come l’ha definita lo stesso Guterres, creerà, entro il 2030, milioni di posti di lavoro, generando ritorni economici per più di 7 trilioni di dollari all’anno, aiutando così ad eliminare povertà e fame nel mondo.
Sono 8 gli ambiti in cui il progetto è stato articolato, e per realizzarlo sarà necessario unire l’impegno della ricerca scientifica ad un forte sostegno economico: proteggere e ripiantare le foreste; ripulire gli oceani e le coste; rendere più verdi le città anche mobilitando i cittadini affinché ripristinino spazi privati e pubblici; prevenire l’inquinamento delle acque dolci e gestire la pesca; nelle torbiere prevenire il drenaggio e la conversione, umidificando nuovamente quelle esistenti; in agricoltura ridurre la lavorazione del terreno usando colture di copertura e adottando fertilizzanti naturali, coltivando colture più diversificate, compresi gli alberi; in montagna ripristinare i boschi per proteggerle da valanghe, frane e inondazioni, limitando al contempo l’estrazione e lo scavo; infine nelle grandi praterie e nelle savane africane pascolare in modo sostenibile ricollegando tra loro i diversi habitat, eliminare le specie di piante invasive lavorando a stretto contatto con le comunità locali.
Se accettiamo la sfida, e a quanto pare non resta altro tempo da perdere, sarà un decennio intenso, in cui dovremo rivedere le nostre abitudini di vita e di consumo, ripensare il modo in cui portiamo il cibo sulle nostre tavole, riconsiderare i mezzi che utilizziamo per andare al lavoro o per compiere viaggi di piacere. Se l’azione sarà congiunta e globale e passerà innanzitutto attraverso noi cittadini, i frutti saranno visibili già nel giro di pochi anni e avremo smesso di rubare la terra ai nostri figli.
Elisa Rocca
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